Pop! Taylor Swift! Gay Pride! Everything that makes me, me! [semicit.]

Ho sempre amato la musica pop. Non c’è niente di meglio per l’umore che ascoltare quelle melodie allegre, energetiche e a volte pesino melense presenti in questo genere. Sì, posso ascoltare la musica classica, posso scivolare su qualche canzone più rock e amo molto un disco (e uno solo) dei Blind Guardian, ma il luogo dove sono veramente a casa è nel colorato e fresco mondo del pop. E’ per questo motivo che sorprende anche me che io sia appodata a Taylor Swift solo da poco più di un mese (anche se, l’ammetto: sto recuperando molto in fretta).
Di lei non sapevo granché, a parte il fatto che era famosa; conoscevo a spanne il ritornello di una sua canzone piuttosto piacevole e anche la melodia di un altro suo brano, pur non avendolo mai attribuito a lei. Avevo sentito parlare di sfuggita della battaglia legale che aveva intrapreso contro la sua precedente etichetta discografica e del fatto che ci fosse un modo “etico” (prendete il termine con le pinze) di ascoltare le sue canzoni, ossia scegliere i brani reincisi -le cosiddette “Taylor’s version”- dei suoi primi dischi. Sapevo anche della sua fama di “sciupauomini”, che avevo già tranquillamente relegato alla solita divertente misoginia dei media (ah ah ah che tanto ridere proprio!). In generale, se qualcun* avesse dovuto chiedermi un parere su di lei come artista o personaggio pubblico, avrei detto che di base provavo, a istinto, sentimenti positivi di simpatia e generale rispetto.

Poi è arrivata “Anti-Hero”, un giorno mentre ero in macchina alla radio e pregavo di non dover passare tutto il viaggio a cambiare compulsivamente stazione nel tentativo di schivare tutte le voci maschili che infestano le frequenze (soprattutto italiane, devo dire). Ho pensato che avesse una bella melodia e, cercando di concentrarmi sul testo per poi poterla ritrovare, avevo anche percepito qualche livello di profondità nelle parole e ne ero rimasta colpita. Era, nella mia percezione, un racconto molto intimo delle insicurezze di una persona: che stupore scoprire che stavamo parlando proprio di Taylor Swift, attualmente in grado di far oscillare sia il globo terrestre (letteralmente: cercatevi informazioni a riguardo di un suo concerto e le reazioni dei sismografi) che il PIL dei luoghi dove si esibisce.
Qualche tempo dopo, la noia mi ha fatto cercare proprio il suo ultimo album non ri-registrato -“Midnights”- per sopravvivere al lavoro d’ufficio.

E questo è l’inizio della mia storia: da lì è stato amore profondo. Continuo ad ascoltarla in maniera ossessiva, in quanto fonte di tutto il pop di cui il mio corpo sente di avere bisogno. Della sua vasta produzione, poche cose non sono nelle mie corde e, per lo più, mi ritrovo a canticchiare le sue melodie in momenti completamente randomici, dalla mattina alla sera. Ho anche iniziato ad approfondire le sue vicende, dalla controversia con la sua casa discografica ad un processo che aveva affrontato per delle molestie che aveva subito. Sono approdata sul suo documentario “Miss Americana” e sono rimasta folgorata dal tipo di persona che ne viene fuori.
Certo, stiamo parlando di una multimilionaria (o miliardaria?), che riesce però a dare di sè un’immagine di persona semplice -persino onesta- nel suo modo di approcciarsi sia alle interviste che con l* fan. Addirittura simpatica e dolce. Mi stupisce, ad esempio, il modo in cui sembra cercare realmente una connessione, soprattutto con l* ammirat*i. Certo, è anche vero che mi trovo in un punto della mia vita in cui sto pensando molto a questo, cioè alla connessione con le persone, all’empatia, al senso di comunità…vedere una persona che secondo l’immaginario comune potrebbe “permettersi” di essere distante comportarsi invece in maniera così entusiasta di fronte al contatto umano è una cosa che oggi bussa forte nella mia coscienza.

Ma non è finita qui: nella ricerca ossessiva (sì, divento molto…diciamo…”focalizzata” quando sono all’inizio di una nuova passione) di video e articoli su di lei, eccomi arrivare al centro di questo post: la comunità “gaylor”, ossia un insieme piuttosto ampio di persone che sostiene che lei sia lesbica/bi/pan ma che non abbia ancora fatto coming out per svariati motivi,e che però abbia comunque cercato di mandare segnali in questo senso alla comunità queer tramite simboli e messaggi “criptati” (cosa per la quale è comunque famosa: cercare “easter eggs” nei suoi video pare essere uno sport molto in voga e, a quanto mi sembra di capire, moltissimi vengono confermati). Non mi interessa ora discutere approfonditamente dell’argomento cercando di provare perché, secondo me, questa teoria abbia fondamento, perché si tratta comunque di speculazioni che, finché non verranno confermate dalla diretta interessata, rimangono nel mondo delle idee; penso però che l’esistenza stessa di questa comunità sia interessante. Ed è per me interessante anche capire perché io stessa abbia aderito senza fatica a questa corrente di pensiero. In fondo, cosa mi cambia se Taylor è davvero bisessuale/pan/lesbica? Le possibilità che ho di incontrarla sono pari allo “zero virgola”, per non parlare di quelle di avere un flirt con lei. Non solo: stiamo parlando -di nuovo- di una delle persone più potenti (=ricche) d’America che potrebbe ritirarsi a vita privata e passare un’esistenza tranquilla ovunque voglia, campando di rendita senza preoccuparsi del futuro (in senso materiale) da qui fino a 100 anni. Di quanta empatia e sostegno può avere bisogno nel suo coming out, quando ha il mondo ai suoi piedi?*
Eppure perché questo bisogno di reclamarla come “nostra”? Perché questa strana gioia nel trovare esposizioni razionali e sensate che confermino la teoria? Perché quella stretta al cuore al pensiero che un coming-out, secondo una ricostruzione “razionale e sensata” trovata in internet, stava per arrivare nel 2019, prima che il fulmine a ciel sereno della vendita della proprietà delle sue canzoni ribaltasse il suo mondo? (No, cercatela questa storia: è strappalacrime. Ci penso da giorni)
C’è realmente da stupirsi se una comunità che a volte (troppo spesso) affronta minacce alla propria incolumità e sopravvivenza vuole sentirsi vicina ad un personaggio che, tutto sommato, è positivo, accogliente, vitale e amorevole? E anche famoso, quindi, un punto di riferimento…?
Ritorno indietro a quando ero “l’unica lesbica del mondo”, una fase che tutte le persone non etero sono certa abbiano passato ad un certo punto, e cercavo in maniera disperata qualcosa, qualcuno che parlasse di me. A me. Ogni piccolo indizio in un film, un libro, una canzone  era in grado di farmi sperare (maledetta per sempre sia “Vivo per Lei” cantata da Giorgia: la musica! Questa tipa viveva per LA. MUSICA. Ma vaff…). Anche se non so se si possa parlare di speranza. E’ qualcosa di più complesso ancora: non che avrei mai potuto incontrare i personaggi di un film o quella cantante, ma l’esistenza stessa di racconti con lesbiche, in qualche modo, legittimava la mia esistenza. Io mi sentivo viva. Vera. Nella mia consapevolezza che quella era la mia identità, vederla rispecchiata in altre immagini o parole mi donava un brivido che tuttora non sono in grado di spiegare. Non mi sono mai sentita in colpa, fortunatamente, ma sola sì. E non parlo di mancanza di relazioni amorose: c’è altro, nella solitudine di un’adolescente lesbica. E’ la mancanza di connessione. E’ l’assenza di comunità. Sono concetti che, come già detto qui, sto facendomi girare molto in testa, in questo periodo, e tuttora non ho una spiegazione chiara del perché sento essere importanti. A parte il fatto che ai miei occhi lo sono a tutti gli effetti. Se poi vogliamo tirare in ballo la biologia, l’antropologia, l’etnografia o chissà quale altra disciplina che venga a dissezionare ogni nostro minimo tendere verso la vita, facciamolo pure, ma non qui.
Qui volevo solo parlare del perché l’idea che Taylor Swift sia lesbica e che lo stia comunicando solo alla sua comunità, tramite termini tipici della cultura queer, riempia di gioia milioni di persone nel mondo. Mi sembra quasi di poterla sentire, quest’onda di entusiasmo ed eccitazione. Felicità allo stato puro. E poi anche commozione, amore, la sensazione di sentirsi comprese. Di non essere sole, neppure nella paura di esporsi e cercare di giostrarsi tra il desiderio di viversi e la necessità di proteggersi, di proteggere dagli occhi spesso gelidi del mondo un segreto prezioso. L’unica cosa che ci fa veramente sentire vive.

 

*In realtà, il mio pensiero a riguardo è che ogni persona vive nel proprio mondo, fatto dei propri ostacoli. E’ vero che lei di privilegio ne ha persino di scorta, ma, in tutta sincerità, non so davvero dire quanto possa essere difficile/facile per lei affrontare un coming out pubblico. Un coming out molto pubblico. E ho il sospetto che non si tratti di questioni meramente economiche derivanti da un calo di vendite, dato che pure di soldi ne ha di scorta, a questo punto della sua carriera.

 

Ps: la semicit. del titolo fa riferimento ad un discorso del documentario “Miss Americana” dove Taylor Swift stava dando vita al video della canzone “ME!” descrivendone alcune scene e che cito ora con precisione:

“When it’s like “me-e-eee” it’s like DANCERS! CATS! GAY PRIDE! PEOPLE WITH COUNTRY WESTERN BOOTS! […] everything that makes me, me”.

Si suppone che il documentario avrebbe dovuto essere uno degli strumenti per il coming out pubblico, ma che sia poi stato rimaneggiato e montato diversamente in seguito alla controversia relativa alla proprietà delle sue stesse canzoni. Quella frase (sfuggita? Lasciata nel tentativo di farla passare sottotraccia, ma di mandare comunque un messaggio? Mah…) mi aveva colpita in maniera particolare.

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Pandemie, pride, giochi di ruolo e militi ignoti.

Sottotitolo: Una serie di pensieri sparsi, disordinati ed incoerenti di un periodo disordinato, incoerente e sparso.

Pare forse incredibile, ma credo di essere una delle poche persone che non ha risentito in maniera particolare dell’isolamento di questi due anni: ho sempre vissuto la socialità come qualcosa di piacevole, ma che dovesse riguardare poche selezionate persone e, a dire il vero, anche pochi selezionati momenti. La socialità mi stanca: non sopporto la confusione, i locali affollati, il vociare; non capisco le masse che ballano o mangiano e bevono su musica assordante; vivo anche gli spettacoli, come ad esempio i concerti a cui sono andata, come un evento personale e non di condivisione con altra gente (o meglio, la condivisione c’è, ma solo tra me e l’artista sul palco: il resto è una presenza del tutto incidentale, anche se inevitabile). Trovo energizzante lo starmene a casa tranquilla, anche solo ad annoiarmi ed è pertanto chiaro che per uscire dalla tana devo avere una forte motivazione, altrimenti la cosa mi costa fatica. Ammetto di starla mettendo giù in maniera piuttosto fredda, perciò voglio specificare che vedere certe persone anche una volta a settimana non mi stufa né disturba, anzi, sono momenti piacevoli in cui sono felice e mi diverto, ma è vero che, spesso, al momento di varcare l’uscio, il primo pensiero che mi passa per la testa è un “ma non potrei restarmene qui e andare a dormire presto?”. Sono, insomma, un’eremita e proprio per questo motivo le varie limitazioni agli spostamenti del periodo pandemico mi sono sembrate anche un’ottima occasione per passare del tempo a casa: non ho patito troppo la solitudine e la mia voglia di comunicare spesso è stata soddisfatta dal mezzo tecnologico (e a volte anche da lettere scritte a mano). Quanto successo mi ha solo resa meno propensa di quanto non sia già ad essere attiva all’esterno, una volta provata la dolce realtà del restarmene tra quattro mura. Anche andare al lavoro, cioè spostarmici fisicamente, è diventato sempre più pesante e vissuto come una reale ingiustizia: rimpiango il troppo breve periodo di smart working in cui potevo organizzare le mie ore lavorative senza la perdita di tempo del viaggio, per avere poi un’enorme fetta di giornata di fronte a me, da dedicarmi completamente.

Credo sia stato in coda alle ultime restrizioni di movimento che ho iniziato a seguire un podcast di giochi di ruolo che ha risvegliato la mia mai sopita voglia di addentrarmi in questo mondo. Ho scoperto così un universo fatto di un sacco di realtà differenti dal classico “Dungeons & Dragons”, notissimo gioco di ruolo da tavolo in cui numeri e statistiche la fanno da padrone: fuori esiste un fiorente universo di manuali che permettono di lanciarsi nei mondi più svariati e di mettersi nei panni di personaggi che si possono interpretare, più che muovere in maniera meccanica. Mi sono gettata quasi ossessivamente prima sulle registrazione di giocate da parte di gruppi esperti, per poi approdare ai gruppi di gioco online. Certo, avere a che fare con un bacino di utenza così grande e randomico sicuramente riduce le possibilità di trovarsi in un safe space come quelli a cui mi sono ormai abituata dopo qualche anno di attività politica in uno spazio autogestito; questo mi ha portata a proporre serate di giochi di ruolo e giochi in scatola proprio nella sede che frequento, pur essendo consapevole che l’argomento non fosse esattamente nelle corde della maggior parte delle persone che vi gravitano.

Ma, attenzione, non voglio rischiare di ridurre questa attività ad una mera spinta egoistica della sottoscritta: è indubbiamente vero che questo elemento ha avuto un grande peso e che ho cercato con tutte le mie forze di trovare persone affini con cui passare il tempo così, ma il mio desiderio era anche quello di creare dei momenti in cui si potesse non pensare al periodo che stiamo tuttora vivendo. Se c’è infatti una palpabile conseguenza che la pandemia ha avuto su di me, è stata il senso di saturazione nei confronti della gestione dei problemi data dal costante martellamento mediatico allarmista. Ogni briciolo di attenzione è stato -ovviamente?- catalizzato dalla malattia, dalla sua diffusione, dalla mala gestione da parte di tutti gli organi di potere, dal numero di vittime dirette e “collaterali” (depressioni, conseguenze sociali ed economiche varie…). Quello che mi sono trovata ad affrontare è stata l’enorme mole di informazioni contrastanti che mi sono franate addosso e che hanno provocato in me la ricerca di un’ostinata sospensione del giudizio, nonché un feroce senso di impotenza di fronte ad ogni cosa: non so cosa sia vero o falso, non so come agire e arginare il problema nel mio essere un’infinitesimale particella di un sistema enorme e freddo e, di conseguenza, non riesco ad affrontare serenamente discussioni -anche interiori- a riguardo, perché tanto non ho soluzioni, né so se quello che posso proporre faccia una qualche differenza. La cosa che pare grave persino a me che la sto vivendo è che questo non vale solo nei confronti del Covid, ma si può estendere ad ogni problema da affrontare politicamente: io mi sento impotente. E quindi cerco di lasciar perdere e trovo la mia pausa da tutto ciò nei giochi. Ho pensato perciò che, come me, potessero esserci anche altre persone a cui avrebbe fatto piacere passare del tempo assieme senza doversi per forza angosciare e l’unico atto politico che sono stata in grado di mettere attivamente in pratica in più di un anno e mezzo è stata l’organizzazione di serate di gioco che servissero come momento di decompressione per chiunque cercasse una tregua.

Tutto questo avveniva parallelamente alla mia già citata scoperta di un mondo di giochi di ruolo vario e variopinto.
Il gioco di ruolo ha sempre avuto su di me un enorme fascino per le possibilità di agire in modi diversi dal sé (oppure -perché no?- molto aderenti alla propria personalità e desideri), con l’aggiunta di una sorta di senso di sicurezza dato dalla distanza tra la persona giocante e il personaggio: giocare un ruolo comporta poter osservare determinate situazioni ed esplorare le proprie reazioni da un posto molto comodo, ossia la consapevolezza che, tanto, è solo un gioco e non succede niente; nel frattempo, però, quello che accade nella completa virtualità dell’immaginazione in qualche modo ti tocca e ti cambia. Elizabeth Hayes in “Gendered Identities” (all’interno di “Fuori dal Dungeon_Genere, razza e classe nel gioco di ruolo occidentale”, una raccolta di articoli a cura di Marta Palvarini che esplora proprio alcuni aspetti del gioco di ruolo) dice: “Un’intersezione tra le identità della vita reale del giocatore e l’identità del personaggio virtuale può essere la fonte di nuovi modi di vedere il mondo e il sé”. D’altra parte, si sprecano ormai gli studi sul tema ed è assodato che le esperienze in gioco possono arricchire la persona giocante, influenzarla, donarle nuovi punti di vista. Trovare persone con cui condividere ciò è stata per me una gioia e anche un’occasione per testare in prima persona gli effetti del “ruolare”.

Una delle esperienze più significative che mi sono capitate è collegata ad un gioco molto diverso da quelli a cui ero abituata: l’ambientazione, infatti, non è il classico mondo inventato in un tempo lontano (futuro o passato che sia), bensì il drammatico teatro della Grande Guerra. Si tratta di “Trincea 1917” di Helios Pu che descriverò citando quanto è possibile trovare sull’aletta anteriore del manuale: Trincea non è un gioco di guerra. Non si gioca per vincere un conflitto. Non si gioca per lanciare tanti dadi e fare tanti danni. Trincea è un gioco sui traumi della Guerra. Si gioca dialogando con le altre persone al tavolo. Si gioca senza cibo e bevande al tavolo. Si gioca per guardare nell’abisso della Guerra.. Impersonando un (o una: l’autore dice chiaramente che l’aderenza storica al 100% non è fondamentale) combattente della Grande Guerra in prima linea, è possibile esplorare la devastazione fisica e morale che il conflitto ha causato a milioni di persone. Nessun personaggio ritornerà a casa (se ritornerà) come era partito e, posso garantirlo, neppure le persone al tavolo potranno dire che l’esperienza di gioco le avrà lasciate indifferenti. Per quanto riguarda me, l’effetto di questo gioco è stato particolarmente segnante: se prima la guerra del ‘14-’18 era sì qualcosa di terribile e assurdo, ma legato solamente ai libri di storia e a monumenti per lo più “muti” sparsi qua e là anche in regione, ora non posso pensare a quel periodo (né passare attraverso i luoghi significativi del conflitto) senza rabbuiarmi o provare una forte emozione, un misto tra commozione, rabbia, angoscia e incredulità. Attraverso un gioco di ruolo sono riuscita ad empatizzare con delle persone che non ho mai conosciuto e -mi dispiace se corro il rischio di banalizzare- ho realmente compreso la portata di quell’evento storico. Certo, non serve vivere una guerra per capire che fa schifo, ma mettersi nei panni di qualcun* che l’ha vissuta, immaginarla in maniera così immersiva, mi ha permesso di guardarla da una prospettiva diversa: ha fatto in modo, insomma, che quel particolare evento mi toccasse in maniera personale e non solo per le conseguenze che può aver avuto e che sicuramente hanno segnato l’identità del territorio in cui vivo.

Ed è qui che arriviamo finalmente al Pride FVG: quest’anno la parata, infatti, era transfrontaliera e coinvolgeva Gorizia e Nova Gorica. Ora, già il viaggio verso la città era stato particolarmente intenso: non riuscivo a smettere di pensare a “Trincea” e a quante persone erano morte sul territorio che stavo attraversando pacificamente in macchina; riflettevo a spezzoni, mentre parlavo con la compagna che era in auto con me, sull’assurdità della guerra e dell’idea dei confini (concetto labile e arbitrario) e su come ora gli stati d’Europa si riempiano la bocca di concetti come fratellanza e cooperazione e cerchino di rendere proprio i confini interni più facili da oltrepassare (più per le merci, bisogna dire, che per le persone -soprattutto alcune persone). Ebbene, il Pride terminava proprio in Piazza della Transalpina, che fino a pochi anni fa era divisa fisicamente dal confine tra Italia e Slovenia. Questa barriera fisica era stata ripristinata in tempo di pandemia, per essere successivamente rimossa (non so essere più precisa sulle tempistiche: questo periodo, come ho già avuto modo di dire, è stato troppo confuso per me) ed infine nuovamente eretta proprio in occasione del Pride. Al nostro arrivo in piazza, infatti, l’abbiamo trovata transennata lungo il confine con pochi passaggi aperti a cui si aveva accesso unicamente esibendo il Green Pass.
Qui ho bisogno di fare una pausa di significativo silenzio.

Riprendiamo.

Il mio vortice di pensieri al momento della conclusione della parata ruotava attorno a due cose, principalmente: la prima era l’assurdità della situazione. Persone che fino a quel momento avevano condiviso uno spazio assieme, erano di nuovo divise in base alla presentazione di un lasciapassare che arbitrariamente definiva la libertà di movimento degli individui. Sottolineo la parola “arbitrariamente”, perché non c’era nessun reale motivo, tanto meno sanitario, che giustificasse questa decisione: tutte quelle persone erano letteralmente insieme fino a un minuto prima e potevano continuare ad essere comunque a poca distanza le une dalle altre anche quando dieci, novanta o metà di loro avesse fatto un passo in Slovenia, dato che la transenna o il nastro segnaletico certo non rappresentano una barriera per alcun virus.
La seconda era di nuovo collegata alla guerra e a quanto poco avesse insegnato alla sua progenie (perché alla fine la sua eredità ce la siamo beccata tutt* noi, volenti o nolenti): un confine che fino al giorno prima non esisteva, era stato ripristinato per dividere ancora senza motivo e sembrava che veramente poche delle persone presenti provassero il mio disagio o vedessero quanto la situazione fosse surreale.

Me ne sono andata dalla parata con un groviglio in testa di pensieri ronzanti, senza sapere che qualche mese dopo avrei dovuto nuovamente confrontarmi con una serie di emozioni forti sempre collegati a questi temi.

Arriva quindi il 29 Ottobre scorso. Mi trovavo in stazione a Udine ad aspettare una persona, quando, quasi senza che me ne rendessi conto, mi vedo circondata da forze dell’ordine di vario genere che si aggirano sul primo binario, qualcuno agghindato dei loro costumi, qualcuno vestito in modo da confondersi tra le persone normali (parlerò al maschile in maniera simbolica, nonostante ci fosse anche un’esigua rappresentanza femminile -un paio? Tre? Non saprei). Un paio di loro portano dei gonfaloni e capisco che non sto assistendo alla solita azione repressiva: deve trattarsi per forza di un qualche rituale della loro specie. Li sento organizzarsi per la fanfara e parlano anche di qualcuno che devono salutare (mi immagino una sorta di rappresentante terreno del loro pantheon). Mi ci vuole una breve ricerca sul telefono per capire che stavano aspettando il “Treno della Memoria” che ricordava il viaggio del convoglio che cento anni fa trasportava il Milite Ignoto dal Friuli a Roma, dove sarebbe stato deposto al Vittoriano. Non so se riuscirò mai a descrivere davvero la rabbia che iniziava a montarmi in corpo: quella gente era lì formalmente per rendere onore al ricordo di un soldato caduto durante la Prima Guerra Mondiale, simbolo di tutti i morti di quel conflitto. Proprio quella gente la cui divisa rappresenta esattamente il motivo per cui quel soldato e tutti gli altri sono morti. Ipocriti maledetti! Alla scoperta che da una certa ora in poi nessun* sarebbe stat* ammess* sul binario e che il treno storico non poteva essere guardato da occhi impuri -il che lo rendeva quindi a tutti gli effetti un rituale dedicato solo a loro- non ci ho visto più: ero furente. Era un gioco tra loro e per loro, per celebrare la loro stessa esistenza facendo finta di essere contriti per quel povero (ma valoroso! Sicuramente valoroso! Indubbiamente valoroso!) morto che magari invece era solo uno sfortunato, sbattuto da una parte all’altra dell’Italia, tra gente di cui forse neppure capiva bene la lingua a sparare ad altra gente di cui non comprendeva l’idioma, ma che indossava colori diversi e tanto bastava per meritarsi una pallottola.

Ho provato uno schifo indicibile e ho continuato a provarlo durante tutti i servizi di propaganda che sono seguiti all’evento. Allo stesso tempo, parte di me era colma di tristezza per lui e tutti quelli che rappresentava, periti inutilmente e sviliti dopo la morte, utilizzati come marionette per permettere al Potere di usare parole come “sacrificio”, “valore” o “pietà”, termini che probabilmente avevano riguardato di rado (nell’accezione data dal Potere, almeno), la loro presenza sui campi di battaglia.
Ora, io so benissimo che avrei provato lo stesso queste emozioni qualche anno fa, data la mia forte avversione nei confronti della guerra e soprattutto del ruolo oppressivo degli Stati e delle loro autocelebrazioni, ma mi rendo anche perfettamente conto che, se non avessi giocato a “Trincea 1917”, la loro intensità non sarebbe stata la stessa.

Ho sperimentato sulla pelle il potere trasformativo del gioco di ruolo: tramite esso, sono riuscita infatti a formare dei pensieri chiari riguardo a un evento, pensieri che però hanno avuto anche un effetto fisico molto forte; il gioco mi ha infatti lasciato una rabbia che aveva obiettivi precisi togliendomi per un attimo dal senso di frustrazione generalizzato che provo di solito (e in questo periodo in maniera particolare) verso l’oppressione esistente.

A questo punto -e solo in maniera apparentemente scollegata, ma che nella mia testa ha tutta la logica del mondo- voglio citare nuovamente un’autrice ritrovata in “Fuori dal Dungeon”: “L’attivismo si basa sempre su un presente difficile che richiede soluzioni immediate, a breve termine, per arrivare tutti al giorno di resistenza successivo; in questa lotta per i frammenti di terra, ciò che si rischia di perdere è la visione di un mondo migliore. […] Il gioco di ruolo è un atto di “divenire” costante che permette una ricostruzione sociale consapevole (o almeno semiconscia)” (Katherine Cross – Role-Playing Games as a Resistance). Queste parole, la prima volta che le ho lette, mi hanno colpita come un pugno nello stomaco: mai come oggi sento la fatica della “vita politica”, il peso di danni enormi a cui non possiamo mettere che piccole pezze, spesso reagendo solo dopo che si è verificato qualcosa di brutto, o che il Potere ha stretto ancora un po’ di più le catene con cui ci lega. E, mentre vivo queste emozioni negative, penso davvero che non mi sia rimasta molta gioia o un futuro luminoso a cui puntare da tenere vivo nella mente e alla cui immagine attingere per darmi un po’ di energia in più. Non lo so se sia soltanto l’Inverno ormai arrivato (non esiste Autunno: c’è solo un’unica stagione di buio e freddo che invade ora l’emisfero settentrionale…), se si tratti degli strascichi della pandemia o di burnout dell’attivista o tutte queste cose assieme, ma, di nuovo, l’unica cosa che sento di voler fare, l’unico modo in cui desidero agire nel mondo, è il gioco, dove lo sguardo sulla realtà può finalmente rasserenarsi e dove posso reagire alle cose che mi succedono vedendo direttamente le conseguenze (di solito positive) delle mie scelte. E’ così che trovo ulteriori spinte verso i GdR e penso a come poter coinvolgere in essi le persone con cui sento una qualche affinità, per vivere assieme delle avventure che ci facciano bene in tutti i modi in cui giocare può essere terapeutico: perché distrae, perché ci insegna qualcosa di noi e delle altre, perché ci permette di provare delle sensazioni positive immediate e di cui necessitiamo per poter andare avanti durante il resto delle nostre esistenze. Certo, mi piacerebbe riuscire a proporre anche giochi “impegnati”: ad esempio, non ho mai avuto modo di provare “Dream Askew” di Avery Alder, basato sulla vita di un gruppo queer in un futuro distopico in cui tutte le diversità sono state escluse fisicamente dalla società; il progetto sembra molto interessante, ma è anche vero che, quando ho acquistato il manuale, avevo un’impostazione mentale diretta unicamente all’uso di dadi e statistiche, perciò trovavo molto difficile immaginarmi proprio come giocarci. Ora, invece, potrei essere meglio disposta nei confronti di un’esperienza più narrativa piuttosto che ad una orientata unicamente ad ottenere il punteggio più alto per la riuscita di un’azione. Inoltre, si tratta indubbiamente di un gioco che renderebbe vera la seconda parte della citazione di poco fa, in quanto il suo fulcro è proprio l’immaginarsi futuri diversi, nuovi generi e nuove relazioni, che potrebbe offrire un sacco di spunti interessanti anche nella vita politica del presente. Detto, questo, però, rimane il mio pensiero di base, ossia che resta politicamente rilevante anche il semplice tempo passato assieme a persone affini in leggerezza, sapendo che un’avventura sarà solo un’avventura, all’interno di un universo chiuso e ben separato dal nostro e la cui unica conseguenza sulle nostre esistenze sarà un po’ di sano divertimento antistress.

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Mass Effect e il veganesimo.

Oggi mi trovo questo appunto risalente a più di due anni fa (luglio 2016). Perché non l’ho mai pubblicato? Lo faccio ora, sorridendo un po’.


Ad un certo punto della sua vita, Grakera del clan Urdnot, decise di diventare vegana. La consapevolezza le venne un giorno che stava riflettendo (era sempre stata un po’ più sensibile, rispetto alla media degli individui della sua specie) sulla storia Krogan. Ad esempio, pensava a come la crescita tecnologica indiscriminata, guidata unicamente dalla sete di dominio sulle altre tribù, avesse ridotto il proprio paese natale, Tuchanka. Prima pianeta rigoglioso, ora era ridotto a poco più di un sasso dove le uniche forme di vita che potevano resistere erano estremamente pericolose e aggressive (vegetali compresi).
A questo si aggiunse anche l’incontro con le/i Salarian: al principio salutato come un passo in avanti della propria civiltà, ebbe come conseguenza la sovrappopolazione dei pianeti su cui le/i Krogan erano stat* trasferit*, quindi una spasmodica ricerca di nuovi luoghi da colonizzare, per sopperire alla carenza di cibo e risorse.
Chiaramente, con l’introduzione della genofagia (la mutazione genetica che impediva, praticamente, alle/i Krogan di riprodursi), la popolazione si era di molto ridotta, ma a Grakera questo interessava parzialmente. Sebbene fosse consapevole che l’agricoltura fosse in grado di sfamare molta più gente rispetto all’allevamento, non era solo questione di numeri.
Grakera, pensando alla follia descritta dalla storia, aveva realizzato che lo sfruttamento di altri individui era semplicemente ingiusto. Questo valeva per i varren (contro l’utilizzo dei quali negli spettacoli di lotta cruenti si stava battendo), che per i divoratori (sebbene discutere di sfruttamento di esseri alti quanto una palazzina fosse un po’ complesso). Ma anche per altr* Krogan, Salarian, Uman*,  Turian o Asari che fossero: ad esempio, sarebbe sempre stata una fiera e attiva sostenitrice per l’abolizione del mercato schiavista Batarian.
Quindi Grakera lottava anche nel quotidiano, scegliendo, ormai da qualche secolo, una dieta vegana. Niente varren, pesci o carni di altro genere, per lei. Neppure derivati: non voleva essere partecipe di alcuna forma di sfruttamento e lei lo dichiarava sempre apertamente, senza alcuna vergogna.
Ma l’universo era grande, e ci sarebbe sempre qualcun* pront* a porre la domanda che lei si sentiva rivolgere da centinaia di anni: “E se ti trovassi su Tuchanka con solo un pyjack, allora? Nessun altra risorsa. Niente di niente: tu ed un pyjack. Lo mangeresti?”.
La risposta che di solito le usciva dalle labbra, in un basso ringhio, era: “Su Tuchanka, da sola e senza risorse, mi mangerei anche te”.
Non che questa sembrasse proprio un’iperbole: il suo aspetto, al pari di ogni Krogan, non era esattamente rassicurante. Ma chiunque conoscesse Grakera e la convinzione che la animava, sapeva che un certo tipo di sensibilità  abitava in lei e non faceva nulla a cui non credesse veramente.
La sua filosofia era molto semplice: “Nel dubbio, non farlo”. Per dire: i divoratori, vermi enormi e aggressivi tanto da poter abbattere un Razziatore, difficilmente potevano essere sfruttati. Ma se si fosse trovato il modo di farlo, lei vi si sarebbe opposta. Non era sicura che questi enormi animali potessero provare qualcosa di simile alla sofferenza (ad eccezione del dolore fisico, ovviamente), o che potessero essere coscienti e autocoscienti in una qualche maniera. Nel dubbio, però, la scelta migliore sarebbe stata quella di non rischiare di far patire un altro essere, appunto. Certo,  Grakera era anche consapevole del fatto che, in caso di minacce alla propria vita, ogni regola veniva mandata graziosamente all’aria: non avrebbe esitato a mangiarsi il pyjack, in condizioni estreme. Non l’avrebbe fatto con gioia, ma la gioia non avrebbe trovato alcuno spazio in situazioni del genere, in ogni caso.

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Vacanze

Se ora chiudo gli occhi, ecco il mare. Li serro fortissimo, infastidita dai bagliori del sole e inizio a sentirne il profumo. E il rumore.
Il mio desiderio non è che una corrente costante che genera onde. Schiuma sulla sabbia, sulla pelle. Il sale mi asseta e la brezza prende a soffiare.
Su quella spiaggia morbida io un po’ annego.

Rido della mia goffaggine mentre annaspo incerta. Con la testa sott’acqua il mondo è silente e io vedo solo il mare. Il mare.

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Life is Strange

AVVERTENZE: il post contiene spoiler. Sconsiglio fortemente la lettura a chiunque abbia intenzione di giocare al videogioco da cui il titolo senza rovinarsi la sorpresa. Davvero, non proseguite se avete intenzione di giocarci (cosa che dovreste fare: è bellissimo).

In queste ultime settimane ho iniziato e finito “Life is Strange”, videogioco di 5 episodi in cui ho impersonato Max, studentessa che torna al paese d’origine, in Oregon, per frequentare una rinomata scuola d’arte e portare avanti la sua passione per la fotografia. Lì, dopo un’assenza di cinque anni, incontra quella che prima del trasferimento era la sua amica d’infanzia, Chloe. Il momento dell’incontro è anche quello che la fa rendere conto di avere il potere di riavvolgere il tempo: lo shock di vedere una ragazza (ancora sconosciuta, dato che Chloe nel frattempo era diventata una sorta di teppistella dai capelli blu) uccisa nei bagni della scuola da uno studente armato di pistola, attiva in Max la possibilità di viaggiare indietro nel tempo.
Proprio sfruttando questo potere, assieme alla ritrovata amica con cui dovrà ripristinare la relazione dopo essersi perse di vista (Max non era stata molto costante nelle comunicazioni), la protagonista dovrà risolvere i misteri del suo paese natio che sembrano tutti ruotare attorno alla scomparsa di Rachel Amber.
Rachel, ragazza popolare, solare, a cui sembra che tutt* volessero bene e con cui Chloe aveva sviluppato un legame molto stretto (che si scoprirà essere -almeno da parte sua- d’amore), è infatti sparita misteriosamente senza lasciare traccia e Chloe, che pianificava con lei la fuga dal soffocante ambiente di Arcadia Bay, non si è mai rassegnata e non ha mai smesso di cercarla, tappezzando di manifesti la città anche dopo che le indagini ufficiali erano state archiviate.

Si tratta di un gioco ben strutturato in cui il potere della protagonista viene utilizzato per raccogliere indizi e informazioni dalle persone, modificando dialoghi e situazioni. E’ anche un videogame basato sulle scelte: le reazioni di Max, le parole che userà, o anche il modo in cui interferirà nella vita di chi la circonda (siano esse persone o animali), porterà a risultati diversi nelle relazioni che intesserà. Proprio questo permette una forte immedesimazione della giocatrice o giocatore [di seguito userò solo il femminile neutro] nella protagonista.
Nel mio caso, il rapporto con Chloe si è sviluppato fino a diventare amore: Max nel proprio diario, verso la fine, si domanda se questa sia amicizia o qualcosa di più ed è pronta a scoprilo. Io stessa ho imparato nel corso del gioco/narrazione a conoscere questa nuova amica, i suoi difetti, i suoi sbalzi di umore, il suo dolore, la sua storia tormentata dei cinque anni dell’assenza di Max in cui ha dovuto affrontare non solo la perdita dell’amica d’infanzia prima e del suo amore poi, ma anche gestire il trauma della morte causa incidente stradale del padre verso cui prova una specie di rancore per “averla abbandonata”.
Per spiegare il livello di immedesimazione, descriverò una delle scene per me più intense. Essa avviene in una linea temporale parallela: ad un certo punto, Max scopre di poter viaggiare nel tempo al momento in cui una foto con lei presente (o semplicemente fatta da lei) è stata scattata. Osservando lo scatto, ne viene risucchiata e, la prima volta, si trova teletrasportata al tragico giorno della morte del padre di Chloe e riesce ad evitare che lui prenda la macchina. Ritornata al presente, scopre come la sua azione abbia modificato il presente: William è ancora vivo, in compenso, Chloe, per uno scherzo del destino, è rimasta vittima proprio di un incidente stradale ed è completamente paralizzata. Non solo: il suo sistema respiratorio sta cedendo ed è prossima alla morte.
Dopo aver passato una giornata in cui le due rivivono i bei momenti dell’infanzia e legano di nuovo (una cosa, ossia la mancata costanza della protagonista nelle comunicazioni, era rimasta invariata nelle due linee temporali), Chloe chiede a Max di somministrarle una dose di morfina eccessiva in modo da porre fine alle sue sofferenze e ai sacrifici della propria famiglia che stava rischiando la bancarotta per le sue cure. Il gioco mi dava la possibilità di rifiutarmi, ma, a quel punto, il mio legame col personaggio di Chloe era già così forte da non potermi permettere di non acconsentire alla sua richiesta: ho guidato Max alla flebo e ho guardato, attraverso i suoi occhi, la “mia” amica morire, sperando, tra l’altro, che Max avesse il coraggio di dirle che l’amava. Per mio sommo disappunto, non l’ha fatto: eppure sarebbe stato estremamente appropriato.

Nonostante le lacrime ed il dolore, niente è paragonabile alla fine del gioco. Il mistero della scomparsa di Rachel e di ciò che stava succedendo all’Accademia Blackwell viene risolto, ma, ancora, resta un enorme problema: un uragano -di cui Max aveva avuto visione poco prima di “ricevere” i suoi poteri nel bagno della scuola- sta per abbattersi su Arcadia Bay e distruggere l’intera cittadina. Le due protagoniste si trovano in una zona relativamente sicura e guardano dall’alto l’uragano avvicinarsi alla costa. Qui viene posta alla giocatrice l’ultima atroce scelta: avendo realizzato che l’uragano altro non è che la reazione della natura ai continui salti temporali di Max, Chloe si rende conto che la sua amica deve tornare indietro e lasciare che venga uccisa nei bagni della scuola. Infatti, secondo lei (e chi ha sviluppato ilgioco) è quello l’elemento principale che ha cambiato tutto dando origine all’uragano. Il discorso che lei fa per convincerci -me, in quanto giocatrice e Max in quanto avatar- si basa sul fatto che in tutte le linee temporali che la nostra eroina ha visitato, la ragazza dai capelli blu è destinata a morire. E’ stato solo l’intervento di Max a evitare, di volta in volta, che questo succedesse ad esclusione della realtà in cui lei era paralizzata, “annullata”, però, dalla decisione finale della fotografa di non cambiare il passato e lasciare che William guidi la macchina con cui farà l’incidente. Ora che Max conosce la verità su Rachel Amber e tutto il resto, farà in modo che anche la città venga a scoprirlo, ma senza Chloe.

Qui è iniziato, per me, il momento drammatico: ho guardato lo schermo con la scritta “sacrifica Chloe” o “sacrifica Arcadia Bay” per minuti lunghissimi. Non ero in grado di decidermi a fare la scelta che, in un certo senso, sapevo di dover fare.
Sacrificare la città sarebbe stato facilissimo: ormai sapevo che Max amava Chloe e che, probabilmente, era ricambiata. Ma come avrebbe potuto vivere lei in pace con la propria coscienza? E Chloe l’avrebbe mai davvero perdonata o ci sarebbe stato, in futuro, un momento in cui avrebbe rinfacciato quella scelta?
In realtà ho giocato i due finali uno dopo l’altro: Max straccia la fotografia che le avrebbe permesso l’ultimo salto temporale e lei e Chloe, abbracciate, dopo essersi giurate di restare fianco a fianco per sempre, guardano la città venire ingoiata dall’uragano. L’ultima scena le vede allontanarsi dalla devastazione insieme, con Chloe che la accarezza dolcemente come a rsssicurarla che va tutto bene e che è andata così e, come aveva giurato sull’altura, aveva veramente accettato la scelta di Max.

MA

Quella, purtroppo, non è stata la mia prima scelta. Ed è qui che volevo arrivare: cosa racconta di me “Life is Strange”? Tutte le scelte che ho fatto, le cose che ho scoperto della personalità delle abitanti di Arcadia Bay, le relazioni che ho intessuto (compreso, ad esempio, non mostrare alcun affetto, neppure un abbraccio, durante una delle scene di addio al migliore amico innamorato di Max) sono state “mie”. Come già accaduto nelle varie esperienze di gioco di ruolo, ogni personaggio che ho mosso è stato guidato da ciò che sentivo di poter o non poter fare: ho quasi sempre evitato di essere meschina, essere gratuitamente crudele o anche solo maleducata. Certo non sempre le mie scelte sono state quelle giuste; forse non sono neppure stata sempre coerente lasciandomi andare a piccoli atti vandalici, ma quello che più spesso mi succede è di guardare una scelta e e valutarla dal punto di vista etico. Ho sempre fatto ciò che ritenevo “giusto” (da non confondersi con l’ “universalmente riconosciuto come buono”) e sacrificare la vita di una sola persona, di fronte alla distruzione di una città, dopo che era lei stessa a suggerirmi di farlo, era effettivamente il male minore.
Ho chiuso gli occhi e, in lacrime, ho optato per dire addio a Chloe. Come atroce cigliegina sulla torta, il loro saluto è stato un bacio (perché le mie scelte, appunto, avevano portato all’innamoramento). La scena del funerale è coronata dalla comparsa di una farfalla blu, animale guida di Chloe (in un gioco in cui quasi tutte sono legate ad un animale – il daino di Rachel interviene spesso a guidare Max, sia nei sogni che come apparizioni nella realtà), la stessa farfalla -si suppone- immortalata dalla protagonista nei bagni, prima che scoprisse di avere i poteri. Questo particolare implica -nel caso del finale trattato- che la farfalla-Chloe compaia nella linea temporale in cui Max le impedisce di morire per la prima volta per donarle i poteri e la possibilità di vivere con lei una settimana in cui potrà risolvere il mistero, ma soprattutto ricostruire con lei un legame che potrà portare anche all’amore. Il tempo si piega su se stesso, perché significa che l’amica è già morta e sa già come andrà a finire il tutto, ma vuole fare in modo che si arrivi al termine di ogni cosa nella “maniera giusta”, ossia con questa breve parentesi settimanale che verrà poi brutalmente richiusa dalla scelta finale.

Sono rimasta terribilmente scossa dal finale di “Life is Strange”: in un periodo in cui non sto bene per una serie svariata di motivi e in cui mi interrogo sul senso della mia esistenza e su come la sto portando avanti, il dover scegliere tra la mia felicità e ciò che è “giusto” (non in termini assoluti, perché il primo finale descritto non mostra alcun rancore da parte di nessuna per la distruzione della città) è stato un duro colpo. Ho pianto, il giorno successivo, domandandomi se sia sempre così o se sarà sempre così. Sono andata in crisi, chiedendomi se sono disposta a sacrificare la mia felicità per qualcosa di più grande, quando non so neppure esattamente bene che cosa sia a rendermi felice, ora come ora: mi sembra di saltare da un impegno all’altro al fine di fuggire ai momenti di solitudine in cui potrei “approfondire la mia conoscenza”. Mi sono arrabbiata con l’ingiustizia di un destino fittizio -perché legato ad un videogioco- le cui conseguenze, però, erano estremamente reali: quei sentimenti io li avevo provati e li stavo provando e il concetto non è tanto diverso dal discorso finale che Chloe fa a Max:

“Max, sei finalmente tornata da me questa settimana e non hai fatto altro che dimostrarmi il tuo amore e amicizia. Mi hai fatto sorridere e ridere come non facevo da anni.
Ovunque io finisca dopo questo…in qualunque realtà…tutti quei momenti tra noi sono stati reali, e saranno nostri per sempre.
Non importa cosa scegli, so che farai la scelta giusta”

Quindi, ecco, in una realtà quei momenti sono esistiti: nella mia realtà di giocatrice, quello che ho vissuto è stato reale. Mi sono immedesimata e ho provato sentimenti di paura, sollievo, preoccupazione, pietà e amore…ho empatizzato veramente, con un meccanismo che, se applicato a film o libri, sembra del tutto normale ma che, per un certo pregiudizio, forse sembra meno giustificabile nel caso di un gioco.
Per consolarmi, ho provato anche a pensare che, in una linea temporale del gioco, Max e Chloe sono comunque sopravvissute, perché il secondo finale l’ho giocato, ma non era solo quello il problema, pertanto non è servito molto. Rendermi conto di come reagisco di fronte alle scelte che faccio è il problema: prendere coscienza di me, di cosa mi fa stare bene o male, di cosa guida le mie decisioni. Nel momento in cui ho realizzato questo, in un certo senso, qualcosa si è sbloccato: mi faceva male l’idea di sentirmi obbligata sempre e comunque a scegliere tra me ed il resto del mondo, come se le cose non potessero mai e poi mai coincidere. Anche senza trovarsi di fronte ad un “aut…aut…”, il mio atteggiamento è di solito stato quello di cercare di essere meno egoista (pur sentendomici comunque spesso), anche di fronte a cose molto stupide. Il creare meno disturbo possibile è quasi un comandamento fondamentale: dal rumore che faccio, allo spazio che occupo, al disappunto che posso provocare scegliendo di starmene a casa invece che uscire a bere qualcosa o viceversa…
In maniera metaforica, ho spesso la sensazione di sacrificare la mia “felicità” sull’altare del “dovere”.
Sentirmi esprimere verbalmente questo concetto in maniera così lineare durante un pianto solitario, mi ha fatta stare meglio e, paradossalmente, ha risolto anche il mio “litigio” col videogioco: ho rilanciato il salvataggio principale e l’ho sovrascritto, guardando la distruzione di Arcadia Bay. Non ho ricevuto la ricompensa del bellissimo e intenso bacio , ma so che ce ne saranno, tra Max e Chloe, nel futuro verso cui stanno viaggiando.
Nel secondo salvataggio ho scelto di nuovo di sacrificare Chloe, ma questa volta mi ha fatto meno male: non era più la mia scelta. Era diventato solo un brutto sogno, l’esplorazione sicura di me e della mia psiche. Ho guardato il bacio e ho salutato la farfalla blu con serena rassegnazione; ho capito il sorriso di Max di fronte all’animale guida; ho compreso come il suo dolore l’avrebbe accompagnata fino a sparire e a lasciare solo quella “settimana mancante” e come avrebbe potuto vivere una vita felice comunque, anche se avesse deciso di salvare la città perdendo il suo amore.

Con questo, non ho certo risolto i miei problemi, ma giocare a “Life is Strange” è stata un’esperienza molto positiva, dopo tutto, portandomi ad una profondità di coscienza di me che non avrei sospettato. Da qui posso partire per capire meglio le mie reazioni/relazioni, le mie richieste e imparare ad ascoltare i miei bisogni e desideri.
Fingendo che questa sia soltanto una lunga, lunghissima recensione, do il mio voto: 10/10 a Max, me e Chloe, per avermi donato una settimana che, in un certo senso, mi ha cambiato la vita.

EDIT: non sono poche le giocatrici contrariate dal finale del gioco e la loro protesta si basa su una critica dell’utilizzo della “teoria del caos” per giustificare la presenza dell’uragano che potrebbe essere sventata solo dalla morte di Chloe. Esistono dissertazioni su come questa teoria sia usata in maniera errata; esiste anche una discussione su come la farfalla non rappresenti Chloe, ma Rachel, il che ha implicazioni interessanti sul rapporto degli animali guida all’interno del gioco. Lascio sotto un video, tra tanti, che parte dalla presentazione di un finale alternativo e prosegue, nei commenti, alla spiegazione del perché questo sia coerente anche nei confronti della teoria del caos. Devo dire che, pur non avendo le conoscenze per poter ribattere o confermare quanto si dice, mi ha lasciata molto soddisfatta.
Eccetto per Victoria. Ecco, Victoria io ho sognato che si laureava e si metteva con Taylor e le due erano felici e continuerò ad immaginarmele così.

How to save Chloe and Arcadia Bay

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Poema

Come posso spiegare la sensazione dell’aria tra le dita?
L’ebbrezza di un pigro guidare nella frescura della sera,
il vento che risale lungo il braccio,
si infila sotto la maglietta, vortica sui seni e mi ricordo…
Mi ricordo quando, secoli fa, ero nuda su una distesa d’erba che mi fustigava i polpacci, la schiena
e, a cavalcioni su di te, le labbra incollate,
risucchiavo il tuo respiro, un po’ della tua anima nei polmoni.
Mi tenevi fermi i capelli,
fiamme rosse che lambivano il tuo viso.
Poi ridevi, la luce del sole, il riflesso del cielo nei tuoi occhi.
Ero io, alla fine, a restare senza fiato.

Come posso spiegare la sensazione dell’acqua nelle coppe dei miei palmi?
La lanciavo in aria, che ricadesse, fresca, sul mio viso,
gli occhi chiusi per l’intenso piacere,
un sorriso estatico e brividi lungo la schiena che spegnevo lasciandomi cadere all’indietro, abbandonata, aspettando di venire sommersa.
I suoni attutiti del mondo, fuori, erano un canto rituale,
un ritmo che si fondeva col battito del mio cuore.
E mi ricordo di quando, prima che si contassero gli anni,
la luna si rifletteva sulla superficie della sorgente.
Quanto avremo ballato, al buio, prima di cercare ristoro nel gorgogliare eterno della polla?
Vedevo la tua schiena, d’argento anch’essa,
ricordo il calore della tua pelle, feroce contrasto.
E la mia sete, la sete, la sete.

Come posso spiegare la sensazione del fuoco nelle mie mani?
Quando ogni fiamma si era placata, le lingue guizzanti dei cani guardiani, come ossa rimanevano le braci,
resti quieti, ricordo di una gioia feroce.
Sacrificio per sacrificio, vi affondavo le dita,
scavavo nella cenere, giocavo col dolore, colma di gratitudine:
avrai qualcosa di me.
Come quando, con la luna appena adolescente, bruciavamo senza controllo, spiriti posseduti a squarciare il silenzio della notte.
Tu ricordi quelle urla? Gli sguardi folli, il brillare di denti affilati, le corse fino al cedere delle gambe, cadute scomposte, sangue, l’urgenza, la fame…l’addormentarsi come perdita dei sensi?

Come posso spiegare la sensazione della terra sotto i miei polpastrelli?
Vi affondo le dita. Calda, soffice, sensuale.
Rizomi, piccoli sassi, l’odore avvolgente di un campo fertile.
Fingo che le mie mani siano radici,
immagino di poter crescere all’infinito,
di vedermi germogliare ciclicamente.
Mi copro di foglie, una corteccia resistente mi protegge,
fiorisco, profumo.
Giunge l’ora dei frutti, sodi, rossi come il peccato,
sulla lingua esplodono inondando la bocca di succo.
Accadde prima di ogni epoca: ci cercammo. Ci sfiorammo le mani come per caso.
Facemmo finta di niente, ma senza spostarci.
Mi rombava il sangue nelle orecchie.
A te, che mai mancavano le parole, rimaneva solo il silenzio.
Il mio stomaco, all’improvviso, si domandava come potesse vivere senza reggere il tuo peso.
Guardavamo l’infinito, mentre mi si inumidivano gli occhi.
Avevi anche tu paura?
Tremavo. Volevo scappare. Restare.
Piangevi anche tu.
Poi le mani, che fino ad allora avevano plasmato il mondo ancora giovane, si mossero, si intrecciarono, si strinsero.
Nella bufera, sotto il mare agitato, in un incendio indomabile, sepolte da una montagna che frana…la realtà si capovolse, ogni cosa perse di significato.
Nessuna delle due fuggì, ma i nostri sguardi terrorizzati si incontrarono: in bilico su una voragine di domande, osai tentare un sorriso. Mi rispecchiai nel tuo. Ci mordemmo le labbra.
Con un bacio ci svegliammo, prima ancora che scrivessero le favole.

Ricordo il tuo odore, come tu il mio e ora, millenni dopo l’inizio dello scorrere del tempo, come ci promettemmo, io non ti aspetto, ma porto con me il ricordo di ciò che è stato e, se ci incontreremo di nuovo, berremo e mangeremo, in onore dei mille desideri che un tempo saziammo.

 

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Trittico

Amo il tuo modo di amare.
Quando parli di crepe, del tuo io complesso,
di cose che posso solo immaginare,
che non tocco con mano.
E dell’amore che ti cammina accanto,
che sussurra al tuo orecchio,
dei tuoi brividi.
Amo quel mistero che resterai
e, al contempo, il tuo aprirti spensierato
in modi che mai concepirei per me.
___
Con lo sguardo mi godevo la tua pelle,
ti cercavo i difetti, e tutti,
senza risparmiarne alcuno,
li respiravo, li assorbivo,
li mangiavo
come bevevo le tue parole
e la tua voce.
I tuoi colori si intonavano così bene col mondo.
I tuoi movimenti col piano dell’esistenza.
Le leggi della fisica – frantumi razionali
nel mondo della mia testa,
dove ogni impulso era nutrirmi di te,
goderti senza freni,
assaporando qualsiasi piccola vibrazione,
ogni respiro, le tue vocali strane,
i riflessi incondizionati, il tuo brillare d’amore.
Non potevo che essere felice.
___
Distesa d’erba.
Fruscii di fronde.
Terra.
Come il grido di chi va per mare,
meno disperato,
meno urgente.
Terra.
Sotto di me, dentro il mio cuore
per lasciare ai germogli il tempo di spuntare.
Terra.
Un bacio che non sarà mai.
Un abbraccio che qualche volta è stato.
Terra.
Ma tu, che forse sei aria, brezza di una calda estate,
forse non saprai cosa significhi.

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Cogliersi di sorpresa

I tuoi occhi chiari si riempiono di bellezza,
di altri occhi azzurri, di sospiri,
di una pelle bianca come le cose più pure e delicate.
Di capelli appiccicati alla fronte sudata,
alle guance.
Di una bocca morbida e spalancata,
di una gola fremente, un cuore impazzito,
di suoni senza controllo.
Di quell’essere bellissimo che io amo.

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La friçe attraverso lo specchio

Vivo in una strana sensazione di viaggio, avanti veloce, indietro di colpo, sbattuta di lato. Oppure è solo la telecamera di una regista inesperta, con zoom improvvisi, tremori, inquadrature sbagliate e goffi tentativi di correzione, solo che non ci sono immagini, bensì sentimenti. Frammenti.
L’innamoramento confessato mi rende felice come se ne fossi io l’oggetto. O come se fossi io a provarlo, attraverso lo specchio, gli occhi, le parole dell’altra.
E, insieme, un briciolo di amarezza: posso, io, provarlo? Esiste quel collegamento? Funziona ogni meccanismo? Se schiaccio quel bottone, avrò una risposta o resterà tutto muto? Ho voglia che quel bottone venga premuto?
E, insieme, l’eccitazione del sapere come va, ma anche di sapere che potrò vivere questo capitolo da spettatrice, senza il rischio di venirne sporcata in qualche modo, marchiata, o solo sgualcita da troppe emozioni.

La tenerezza della fragilità umana, che si ostina a provare sentimenti, mentre, nello stesso momento, mi osservo domandarmi se ho mai capito che senso abbia esattamente il sesso. Quella cosa in cui le persone fanno facce stupide e rumori ridicoli. Cielo! Anche io ho fatto quella roba? E non veniva da ridere all’altra parte? …

…sopportava stoicamente?

No, ricordo che era bello. Che non ho mai pensato che nulla fosse stupido, in quelle situazioni. Perché lo penso adesso? E’ come se tutto fosse così lontano da me da non coglierne l’essenza, ma ricordo di aver provato delle emozioni. Ricordo che sono ancora in grado di farlo. Ho una foto di me innamorata di pochi giorni fa, anche se è solo un concerto e non è quell’innamoramento, proprio quello che “la gente” intende di solito. Le sensazioni mi attraversano e hanno campo libero: come posso negarlo?
Be’, a meno che non si tratti di mettersi in relazione con altre persone. “Vere”. Persone che possano rispondere o esprimersi di fronte a queste stensazioni. Non abbraccio, anche quando vorrei. Non riesco: mi è capitato di volerlo, ma non rientrava nella prassi di comportamento tacitamente concordata e generalmente applicata durante gli incontri con tale individuo. Non ci ero abituata io in primis ed era un abbraccio che comunque voleva dire…intensità, che qualcosa era già cambiato. Ma ci si abbraccia in almeno due: una persona di troppo, per me, per potermi far carico di quella responsabilità e una persona di troppo che possa aver accesso alle mie vulnerabilità.

E mentre penso a tutto questo, la gente si conosce, si piace, si apre…
Sembra quasi una cosa naturale, da dietro lo specchio.

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Queerchè?

Ho un momento di forte dubbio politicizzato che, ora riconosco, si agita in me da molto.
Se tutto va come nei radiosi progetti e sogni che ho fatto per il mio futuro, non partorirò mai, ma questo dubbio si è comportato da fastidioso embrione per tutta la sua esistenza, fino ad esplodere ed essere partorito -novella Atena- dalla mia mente razionale.

Io ho un problema con il termine queer

Il fatto è che, a questo punto, credo di non avere una buona relazione con questa parola. Ogni volta che la penso, la ascolto o la dico, vedo, nella mia testa, l’immagine di una persona di genere non definito, sorridente e con in testa un pennacchio da ballerina di samba. E’ un’immagine molto allegra e, per se’, mi fa piacere vederla. Non è fastidiosa, non è disturbante in alcun modo. Solo che…

Solo che come faccio a riconoscermi in una persona che balla la samba? Io non sono queer, sono lesbica. Ed è vero che nessun* mi obbliga a riconoscermi in termini che non voglio: non è questo il problema. Il mio problema è: chi si può riconoscere in una persona che balla la samba? Voglio dire: è solo una ballerina di samba. O un ballerino. Chiunque può ballare la samba. Dov’è la forza dirompente? Dov’è l’elemento di rottura contro la normatività soffocante? E’ un ballo e la gente balla in continuazione, oggigiorno, senza mettere in dubbio alcunché delle restrittive regole della vita. Un ballo è una pausa, prima di tornare nei ranghi.

Ho un problema con questa parola e mi fa rabbia avercelo. Mi incazzo perché vorrei non voler realizzare che non riesco a vedere la sua forza, nonostante esistano persone che conosco e a cui voglio bene che si definiscono queer E sono potenze politicizzate che stimo e con cui lotto.

E invece il problema resta. Esattamente come un/a figli*…

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