Qualche settimana fa mi è stato chiesto, per un progetto riguardante l’autorappresentazione delle donne, un autoscatto. Ero di fretta, purtroppo, e ho fatto meglio che ho potuto. Ne è uscita una foto un po’ sfocata, in parte abbagliata, ma dannatamente bella. Ho un’espressione strana -potrei definirla sensuale?- e una posa che non smette di farmi pensare ad una divinità che esce dalle acque (non lo so, saranno i fianchi morbidi, la testa che tende a reclinarsi all’indietro, sarà che sono proprio tipa da divinità che esce dalle acque…), anche se la verità è che io, in quella foto, volevo essere soprattutto nuda.
E’ strano, oppure no, ma da qualche tempo il mio personale rapporto con il (mio personale) corpo è parzialmente cambiato. Certo, resta sempre molto complesso e non credo che sarei in grado di sbrogliare facilmente la matassa che questo finisce per comporre nella mia mente cosciente e non, però qualcosa si è modificato -anche se, grazie a cosa, mica lo so bene.
Mi guardo con occhi diversi. Sono sempre stata molto curiosa, questo è certo: le mie mani, i miei occhi, la mia pelle i miei capelli, il mio profilo, le mie espressioni…tutto quanto; mi sarei guardata e mi guarderei per ore. Le foto, da sempre, mi imbarazzano e mi incuriosiscono. So, dopo attente osservazioni ed approfonditi studi, di avere una “faccia da foto”, ossia un’espressione “controllata” che emerge quando mi accorgo che mi stanno riprendendo, in modo che l’immagine di me esca “meno peggio”, se proprio devo comparire senza fare una faccia stupida (che, invece, non mi imbarazza in quanto volutamente “finta” e “caricaturata”); il fatto è che spesso mi trovo a desiderare di essere colta di sorpresa, quando non so come si stiano muovendo i muscoli del viso e, in generale, come io stia esprimendo le emozioni. Mi è capitato di “autoscattarmi”, cercando di non porre alcun freno alle espressioni che facevo. In questi casi, capita che faccia fatica a “riconoscermi” e non mi consideri fotogenica (sono poche, molto poche le foto “a sorpresa” in cui mi piaccio), però sono anche le immagini di me che più mi fanno riflettere: “Sarò così anche “dal vivo”, o è solo il “frame” ad essere ridicolo/brutto/deludente/…?” o un molto più semplice-eppur-complesso “Sono così?”. Quindi mi osservo. Raccolgo nel mio archivio tutte le mie facce. Cerco di ricordarmi come sono, anche al di là del viso: quanto spazio occupo? Che differenze ci sono tra le mie proporzioni e quelle altrui? Quali angoli possono produrre le mie articolazioni? Mi ricostruisco in 3D nella virtualità dell’immaginazione; ma se all’inizio questo processo aveva scopi denigratori e di controllo (non sono abbastanza bella/alta-o-bassa/magra/aggraziata…quindi devo cercare di “trattenermi” -producendo, ad sempio, la suddetta “faccia da foto”), ora è diventato più “scientifico”, accompagnato da un vago senso di piacere. “Sono così. Sono proprio così'” e lo dico a volte sorridendo, altre volte semplicemente alzando le spalle.
Ho iniziato a non depilarmi, perché “sono così” e ho avuto anche il “coraggio” (virgolettato, perché non dovrebbe trattarsi di un atto rivoluzionario, ma la nostra società non è delle migliori, su questo genere di argomenti) di andare al mare senza preoccuparmi di coprire tale “vergogna”. Ho iniziato a fotografarmi o riprendermi nuda, perché “sono così” e voglio vedermi più spesso. Mi sono fatta fotografare (semi)nuda, perché “sono così” e “così” era proprio la misura che andava bene. Chiaramente non ho magicamente risolto tutti i problemi di relazione col mio corpo, né posso dire che i conflitti siano vicini ad un cessate il fuoco, però qualche virgola si è spostata.
E’ in questo complicato contesto che si inserisce la foto che ho fatto: dovevo autorappresentarmi e quindi ho scelto di essere bella-così-come-sono. Senza troppe forzature, senza tentare di nascondere nulla (appunto: in realtà volevo essere nuda). Solo qualche passo indietro nel tempo e avrei scelto una posa diversa: niente sguardo diretto (anzi, forse rivolto verso il basso e di lato), composta e placida. “Innocua”. E di certo la macchina fotografica non sarebbe stata ad altezza del pube. Se guardo questa immagine (che non pubblicherò, mi dispiace) mi vedo, invece, traboccante.
E’ chiaro che questo è solo un frammento di uno “stato di grazia”: non si esaurisce qui il mio lavoro su me stessa, né, credo, si possa iniziare a parlare di raggiungimento di un buon livello di accettazione di sé. In realtà questa foto ha aggiunto nuove domande al mio ragionamento/percorso: mi vedevo davvero così, in quell’attimo? E’ stata fatta affinché piacessi? Se è stata fatta affinché piacessi, a chi dovevo piacere (me, una persona specifica, tutt* le/gli eventuali osservatrici/ori)?
In questo momento sarei molto portata a dire* che si è trattato del bagliore di quel preciso attimo: stavo bene e volevo e sentivo di essere “trasparente”; emanavo sensazioni piacevoli. Se cerco di recuperare i ricordi (nonostante la loro nota inaffidabilità), mi rivedo e “risento”: erano molte le emozioni in ballo e sentivo di non essere in grado di contenerle. Fluivano da me, prima e meglio delle parole, fino a rendere ogni razionalizzazione inutile (sebbene io ami, no, anzi: viva per razionalizzare tutto). Ero così per me e per chi era lì. E quindi anche per la foto.
Quindi era questa, la mia autorappresentazione: solo un istante intenso, acciuffato prima che svanisse. Anche se spero possa rappresentare un buon passo affinché diventi una realtà, se non costante (“Solo gli dei possono sopportare così tanto amore…” Cit. a braccio di non ricordo chi o cosa), almeno un po’ più presente nel mio mondo interiore.
*questo non significa che sia realmente così: sto solo cercando di interpretare e tradurre qualcosa che a parole non è esprimibile in quanto non necessitava, sul momento, di essere analizzato ed espresso in altri modi e codici