E mi ritrovo ancora qui a pensare allo sguardo delle altre persone. Non per schivarlo o per cercare di adeguarmi ad esso (non adesso, almeno), ma per cercare di capire il senso delle loro parole quando dicono cosa vedono. Cosa vedono in me. Per la seconda volta (che io ricordi) mi è stato detto che rinnego la mia femminilità. Una parola che diventa ostacolo insormontabile: inconoscibile, indefinibile, sdruccioloso, sfuggente; mi cola via come l’acqua dai capelli e mi blocco, perché non so cosa controbattere. Eppure io mi sento… Un momento: mi sento femminile?
Nel momento in cui esce questo giudizio definitivo (“Non capisco perché tutte le lesbiche qui in Italia rinneghino la propria femminilità”), passo in rassegna le donne che ho conosciuto, quelle di cui mi sono innamorata o verso le quali ho provato attrazione. Non ne trovo una uguale all’altra: nessuno stampo, nessun segno di indiscutibile rinnegamento della propria femminilità.
“…almeno tu hai i capelli lunghi”.
Oh, sono quasi salva, allora. Come se lo facessi per coprire la mia “vera natura maschia” e non perché sia momentaneamente ferocemente innamorata dei miei boccoli.
Quindi, capelli a parte, tutto il resto di me sa di “uomo”.
Forse è perché quando sono rilassata tendo ad espandermi: allungo ed allargo le gambe, dove possibile; e anche le braccia. O mi accarezzo la pancia, oppure la percuoto improvvisando una sessione ritmica. O…oh, dei, posso addirittura ruttare. E io che credevo che fosse una vittoria, rispetto a quando ero piccola/giovane ed insicura e dovevo sparire dalla vista di tutt*; quando dovevo accertarmi di occupare il minor spazio possibile, perché già il corpo sfuggiva al controllo della mia volontà urlando “Hey, sono qui!” con le sue misure. Non che ora vada meglio: quando sono con persone che non conosco, di solito, cammino il più silenziosamente possibile, parlo a bassa voce, me ne sto seduta a gambe strette, braccia incrociate, testa bassa e cose così. Però, almeno, ora come ora mi concedo di perdere un po’ di controllo, di rilassarmi. Con poche selezionate persone. Un passo alla volta. Evidentemente, però, sto camminando sulla strada sbagliata, perché, così facendo, non faccio che rinnegare la mia “vera natura”. E, pare, peggioro tutta la situazione non truccandomi, non depilandomi, o perché gli ormoni ordinano al mio corpo di lasciar spazio ai baffi e ai peli sul mento coi quali sto cercando di far pace (con scarsi risultati).
Quindi cercare di accettare quello che sono è, allo stesso tempo, rinnegarmi. Un enigma da cui mi sembra di non poter uscire. Divertirmi, stare comoda, dire al mio inflessibile giudice interiore di andare a morire male per un po’ significa “essere la solita (deludente, mi par chiaro) lesbica”.
E in quel momento penso a cose che, sono sicura, ho già scritto altrove, in questa sede: quanto mi piaccio, quando me ne sto nuda davanti allo specchio, o quando penso a cose dolci e mi sento pervadere di stelle e aurore boreali e inizio a convincermi che il mondo sia bellissimo anche perché ne faccio parte. E mi considero incredibilmente donna, sebbene non sappia esattamente cosa voglia dire.
Nello stesso istante, il mio cervello mi propone un’immagine del passato (non così remoto, né, tuttora, così innocuo e facile da ricordare senza che lasci strascichi e dubbi): una delle tante volte in cui, sempre davanti allo specchio, mi scrutavo, cercando di scavarmi dentro, di entrarmi negli occhi arrossati dalle lacrime e sussurravo “Cosa c’è che non va, in me? Perché sono così sbagliata?”.
Forse, dopotutto, tentare di continuare ad essere la “solita lesbica” non è poi un’idea così brutta.