Mi linkano un articolo abbastanza ridicolo. Lo metto qui, un po’ nascosto, perché è piuttosto patetico: sono riuscita a leggerlo unicamente badando ad una riga dispari ogni dieci. In realtà non voglio discutere del discutibile: si parla di poligamia, quindi di qualcosa che non mi interessa (il matrimonio), il punto di vista è unicamente quello maschile, quindi il mio livello di attenzione si abbassa ancora di più e, in più, si affronta il tema delle malattie cardiovascolari, argomento per trattare il quale manco di competenze adeguate. La verità è che nel mio cervello si accendono i pochi collegamenti ancora buoni e penso a quante persone, leggendo questo articolo, lo interpreteranno come una critica al poliamorismo o alle relazioni aperte (ma ci sarà anche quell* che troverà una critica al genere femminile tutto). E’ un volo di fantasia un po’ più spinto quello che mi fa interpretare in senso metaforico il titolo: quel “fa male al cuore” mi colpisce.
Penso che quello che fa realmente male al cuore sia l’amore così com’è concepito nella nostra società. Le barriere che siamo costrett* a mettere per suddividere e classificare tutte le relazioni interpersonali. Quelle stesse barriere che mi soffocano ma che, al contempo, non riesco a superare: non riesco a vedere cosa ci sia oltre, se mai esista, un “oltre”. Perché esiste qualcosa che non puoi ancora nominare? E, nel momento in cui manca un vocabolario (anche di gesti) comune, quante possibilità ho di esprimermi ed essere sicura di venire capita, facendo vedere alle/gli altr* quello che ho scorto oltre confine? Ed è la paura di fraintendimenti che mi spinge ad analisi sempre più certosine che, lavorando su materiale fluido come il sentimento e le sensazioni, non portano assolutamente a niente. Affondando nel microscopico particolare, mi ritrovo perduta nello sterminato tutto e viceversa: se mi apro, finisco per costruire confini e specificazioni che mi chiudono in scatola.
Gioco spesso a guardare questo mio corpo, comprensivo delle sue sensazioni, come fossi un’estranea, una qualche intelligenza artificiale che giudica le emozioni, consapevole che siano frutto di reazioni chimiche e, allo stesso tempo, analizzandone le conseguenze: entusiasmo, calma, tristezza, amarezza… Mi dico “passerà” o “ricordatelo”, a seconda della qualità di quanto sto provando, ma scorgo i limiti di questo agire: la macchina che fingo di essere non può far altro che osservare ed annotare. Non riesco ad andare oltre, né a sfuggire alla cultura che mi è stata imposta, che giudica ogni cosa che provo come positiva o negativa, a seconda di quanto fa comodo, tanto che, in realtà, dovrei parlare di “utile o inutile”, anche quando si parla di felicità o amore. Quindi anche io finisco per ripetere quanto mi è stato insegnato: la rabbia è male; l’amore è bello, ma solo se è definito in una determinata maniera e, contemporaneamente, mi rende stupida e non produttiva; ciò che non segue determinati rituali non può essere definito “___” (amicizia, amore, altro…) e quindi non esiste. Per questo motivo, spesso, non so cosa sto provando: annoto la contentezza, la commozione, il desiderio, ma stanno fuori da ogni casella fornitami e dalle “procedure” testate, approvate e diffuse come verità e, quindi, non sono sicura siano vere.
E’ questo, alla fine, che mi fa male al cuore.