Sottotitolo: Una serie di pensieri sparsi, disordinati ed incoerenti di un periodo disordinato, incoerente e sparso.
Pare forse incredibile, ma credo di essere una delle poche persone che non ha risentito in maniera particolare dell’isolamento di questi due anni: ho sempre vissuto la socialità come qualcosa di piacevole, ma che dovesse riguardare poche selezionate persone e, a dire il vero, anche pochi selezionati momenti. La socialità mi stanca: non sopporto la confusione, i locali affollati, il vociare; non capisco le masse che ballano o mangiano e bevono su musica assordante; vivo anche gli spettacoli, come ad esempio i concerti a cui sono andata, come un evento personale e non di condivisione con altra gente (o meglio, la condivisione c’è, ma solo tra me e l’artista sul palco: il resto è una presenza del tutto incidentale, anche se inevitabile). Trovo energizzante lo starmene a casa tranquilla, anche solo ad annoiarmi ed è pertanto chiaro che per uscire dalla tana devo avere una forte motivazione, altrimenti la cosa mi costa fatica. Ammetto di starla mettendo giù in maniera piuttosto fredda, perciò voglio specificare che vedere certe persone anche una volta a settimana non mi stufa né disturba, anzi, sono momenti piacevoli in cui sono felice e mi diverto, ma è vero che, spesso, al momento di varcare l’uscio, il primo pensiero che mi passa per la testa è un “ma non potrei restarmene qui e andare a dormire presto?”. Sono, insomma, un’eremita e proprio per questo motivo le varie limitazioni agli spostamenti del periodo pandemico mi sono sembrate anche un’ottima occasione per passare del tempo a casa: non ho patito troppo la solitudine e la mia voglia di comunicare spesso è stata soddisfatta dal mezzo tecnologico (e a volte anche da lettere scritte a mano). Quanto successo mi ha solo resa meno propensa di quanto non sia già ad essere attiva all’esterno, una volta provata la dolce realtà del restarmene tra quattro mura. Anche andare al lavoro, cioè spostarmici fisicamente, è diventato sempre più pesante e vissuto come una reale ingiustizia: rimpiango il troppo breve periodo di smart working in cui potevo organizzare le mie ore lavorative senza la perdita di tempo del viaggio, per avere poi un’enorme fetta di giornata di fronte a me, da dedicarmi completamente.
Credo sia stato in coda alle ultime restrizioni di movimento che ho iniziato a seguire un podcast di giochi di ruolo che ha risvegliato la mia mai sopita voglia di addentrarmi in questo mondo. Ho scoperto così un universo fatto di un sacco di realtà differenti dal classico “Dungeons & Dragons”, notissimo gioco di ruolo da tavolo in cui numeri e statistiche la fanno da padrone: fuori esiste un fiorente universo di manuali che permettono di lanciarsi nei mondi più svariati e di mettersi nei panni di personaggi che si possono interpretare, più che muovere in maniera meccanica. Mi sono gettata quasi ossessivamente prima sulle registrazione di giocate da parte di gruppi esperti, per poi approdare ai gruppi di gioco online. Certo, avere a che fare con un bacino di utenza così grande e randomico sicuramente riduce le possibilità di trovarsi in un safe space come quelli a cui mi sono ormai abituata dopo qualche anno di attività politica in uno spazio autogestito; questo mi ha portata a proporre serate di giochi di ruolo e giochi in scatola proprio nella sede che frequento, pur essendo consapevole che l’argomento non fosse esattamente nelle corde della maggior parte delle persone che vi gravitano.
Ma, attenzione, non voglio rischiare di ridurre questa attività ad una mera spinta egoistica della sottoscritta: è indubbiamente vero che questo elemento ha avuto un grande peso e che ho cercato con tutte le mie forze di trovare persone affini con cui passare il tempo così, ma il mio desiderio era anche quello di creare dei momenti in cui si potesse non pensare al periodo che stiamo tuttora vivendo. Se c’è infatti una palpabile conseguenza che la pandemia ha avuto su di me, è stata il senso di saturazione nei confronti della gestione dei problemi data dal costante martellamento mediatico allarmista. Ogni briciolo di attenzione è stato -ovviamente?- catalizzato dalla malattia, dalla sua diffusione, dalla mala gestione da parte di tutti gli organi di potere, dal numero di vittime dirette e “collaterali” (depressioni, conseguenze sociali ed economiche varie…). Quello che mi sono trovata ad affrontare è stata l’enorme mole di informazioni contrastanti che mi sono franate addosso e che hanno provocato in me la ricerca di un’ostinata sospensione del giudizio, nonché un feroce senso di impotenza di fronte ad ogni cosa: non so cosa sia vero o falso, non so come agire e arginare il problema nel mio essere un’infinitesimale particella di un sistema enorme e freddo e, di conseguenza, non riesco ad affrontare serenamente discussioni -anche interiori- a riguardo, perché tanto non ho soluzioni, né so se quello che posso proporre faccia una qualche differenza. La cosa che pare grave persino a me che la sto vivendo è che questo non vale solo nei confronti del Covid, ma si può estendere ad ogni problema da affrontare politicamente: io mi sento impotente. E quindi cerco di lasciar perdere e trovo la mia pausa da tutto ciò nei giochi. Ho pensato perciò che, come me, potessero esserci anche altre persone a cui avrebbe fatto piacere passare del tempo assieme senza doversi per forza angosciare e l’unico atto politico che sono stata in grado di mettere attivamente in pratica in più di un anno e mezzo è stata l’organizzazione di serate di gioco che servissero come momento di decompressione per chiunque cercasse una tregua.
Tutto questo avveniva parallelamente alla mia già citata scoperta di un mondo di giochi di ruolo vario e variopinto.
Il gioco di ruolo ha sempre avuto su di me un enorme fascino per le possibilità di agire in modi diversi dal sé (oppure -perché no?- molto aderenti alla propria personalità e desideri), con l’aggiunta di una sorta di senso di sicurezza dato dalla distanza tra la persona giocante e il personaggio: giocare un ruolo comporta poter osservare determinate situazioni ed esplorare le proprie reazioni da un posto molto comodo, ossia la consapevolezza che, tanto, è solo un gioco e non succede niente; nel frattempo, però, quello che accade nella completa virtualità dell’immaginazione in qualche modo ti tocca e ti cambia. Elizabeth Hayes in “Gendered Identities” (all’interno di “Fuori dal Dungeon_Genere, razza e classe nel gioco di ruolo occidentale”, una raccolta di articoli a cura di Marta Palvarini che esplora proprio alcuni aspetti del gioco di ruolo) dice: “Un’intersezione tra le identità della vita reale del giocatore e l’identità del personaggio virtuale può essere la fonte di nuovi modi di vedere il mondo e il sé”. D’altra parte, si sprecano ormai gli studi sul tema ed è assodato che le esperienze in gioco possono arricchire la persona giocante, influenzarla, donarle nuovi punti di vista. Trovare persone con cui condividere ciò è stata per me una gioia e anche un’occasione per testare in prima persona gli effetti del “ruolare”.
Una delle esperienze più significative che mi sono capitate è collegata ad un gioco molto diverso da quelli a cui ero abituata: l’ambientazione, infatti, non è il classico mondo inventato in un tempo lontano (futuro o passato che sia), bensì il drammatico teatro della Grande Guerra. Si tratta di “Trincea 1917” di Helios Pu che descriverò citando quanto è possibile trovare sull’aletta anteriore del manuale: “Trincea non è un gioco di guerra. Non si gioca per vincere un conflitto. Non si gioca per lanciare tanti dadi e fare tanti danni. Trincea è un gioco sui traumi della Guerra. Si gioca dialogando con le altre persone al tavolo. Si gioca senza cibo e bevande al tavolo. Si gioca per guardare nell’abisso della Guerra.”. Impersonando un (o una: l’autore dice chiaramente che l’aderenza storica al 100% non è fondamentale) combattente della Grande Guerra in prima linea, è possibile esplorare la devastazione fisica e morale che il conflitto ha causato a milioni di persone. Nessun personaggio ritornerà a casa (se ritornerà) come era partito e, posso garantirlo, neppure le persone al tavolo potranno dire che l’esperienza di gioco le avrà lasciate indifferenti. Per quanto riguarda me, l’effetto di questo gioco è stato particolarmente segnante: se prima la guerra del ‘14-’18 era sì qualcosa di terribile e assurdo, ma legato solamente ai libri di storia e a monumenti per lo più “muti” sparsi qua e là anche in regione, ora non posso pensare a quel periodo (né passare attraverso i luoghi significativi del conflitto) senza rabbuiarmi o provare una forte emozione, un misto tra commozione, rabbia, angoscia e incredulità. Attraverso un gioco di ruolo sono riuscita ad empatizzare con delle persone che non ho mai conosciuto e -mi dispiace se corro il rischio di banalizzare- ho realmente compreso la portata di quell’evento storico. Certo, non serve vivere una guerra per capire che fa schifo, ma mettersi nei panni di qualcun* che l’ha vissuta, immaginarla in maniera così immersiva, mi ha permesso di guardarla da una prospettiva diversa: ha fatto in modo, insomma, che quel particolare evento mi toccasse in maniera personale e non solo per le conseguenze che può aver avuto e che sicuramente hanno segnato l’identità del territorio in cui vivo.
Ed è qui che arriviamo finalmente al Pride FVG: quest’anno la parata, infatti, era transfrontaliera e coinvolgeva Gorizia e Nova Gorica. Ora, già il viaggio verso la città era stato particolarmente intenso: non riuscivo a smettere di pensare a “Trincea” e a quante persone erano morte sul territorio che stavo attraversando pacificamente in macchina; riflettevo a spezzoni, mentre parlavo con la compagna che era in auto con me, sull’assurdità della guerra e dell’idea dei confini (concetto labile e arbitrario) e su come ora gli stati d’Europa si riempiano la bocca di concetti come fratellanza e cooperazione e cerchino di rendere proprio i confini interni più facili da oltrepassare (più per le merci, bisogna dire, che per le persone -soprattutto alcune persone). Ebbene, il Pride terminava proprio in Piazza della Transalpina, che fino a pochi anni fa era divisa fisicamente dal confine tra Italia e Slovenia. Questa barriera fisica era stata ripristinata in tempo di pandemia, per essere successivamente rimossa (non so essere più precisa sulle tempistiche: questo periodo, come ho già avuto modo di dire, è stato troppo confuso per me) ed infine nuovamente eretta proprio in occasione del Pride. Al nostro arrivo in piazza, infatti, l’abbiamo trovata transennata lungo il confine con pochi passaggi aperti a cui si aveva accesso unicamente esibendo il Green Pass.
Qui ho bisogno di fare una pausa di significativo silenzio.
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Riprendiamo.
Il mio vortice di pensieri al momento della conclusione della parata ruotava attorno a due cose, principalmente: la prima era l’assurdità della situazione. Persone che fino a quel momento avevano condiviso uno spazio assieme, erano di nuovo divise in base alla presentazione di un lasciapassare che arbitrariamente definiva la libertà di movimento degli individui. Sottolineo la parola “arbitrariamente”, perché non c’era nessun reale motivo, tanto meno sanitario, che giustificasse questa decisione: tutte quelle persone erano letteralmente insieme fino a un minuto prima e potevano continuare ad essere comunque a poca distanza le une dalle altre anche quando dieci, novanta o metà di loro avesse fatto un passo in Slovenia, dato che la transenna o il nastro segnaletico certo non rappresentano una barriera per alcun virus.
La seconda era di nuovo collegata alla guerra e a quanto poco avesse insegnato alla sua progenie (perché alla fine la sua eredità ce la siamo beccata tutt* noi, volenti o nolenti): un confine che fino al giorno prima non esisteva, era stato ripristinato per dividere ancora senza motivo e sembrava che veramente poche delle persone presenti provassero il mio disagio o vedessero quanto la situazione fosse surreale.
Me ne sono andata dalla parata con un groviglio in testa di pensieri ronzanti, senza sapere che qualche mese dopo avrei dovuto nuovamente confrontarmi con una serie di emozioni forti sempre collegati a questi temi.
Arriva quindi il 29 Ottobre scorso. Mi trovavo in stazione a Udine ad aspettare una persona, quando, quasi senza che me ne rendessi conto, mi vedo circondata da forze dell’ordine di vario genere che si aggirano sul primo binario, qualcuno agghindato dei loro costumi, qualcuno vestito in modo da confondersi tra le persone normali (parlerò al maschile in maniera simbolica, nonostante ci fosse anche un’esigua rappresentanza femminile -un paio? Tre? Non saprei). Un paio di loro portano dei gonfaloni e capisco che non sto assistendo alla solita azione repressiva: deve trattarsi per forza di un qualche rituale della loro specie. Li sento organizzarsi per la fanfara e parlano anche di qualcuno che devono salutare (mi immagino una sorta di rappresentante terreno del loro pantheon). Mi ci vuole una breve ricerca sul telefono per capire che stavano aspettando il “Treno della Memoria” che ricordava il viaggio del convoglio che cento anni fa trasportava il Milite Ignoto dal Friuli a Roma, dove sarebbe stato deposto al Vittoriano. Non so se riuscirò mai a descrivere davvero la rabbia che iniziava a montarmi in corpo: quella gente era lì formalmente per rendere onore al ricordo di un soldato caduto durante la Prima Guerra Mondiale, simbolo di tutti i morti di quel conflitto. Proprio quella gente la cui divisa rappresenta esattamente il motivo per cui quel soldato e tutti gli altri sono morti. Ipocriti maledetti! Alla scoperta che da una certa ora in poi nessun* sarebbe stat* ammess* sul binario e che il treno storico non poteva essere guardato da occhi impuri -il che lo rendeva quindi a tutti gli effetti un rituale dedicato solo a loro- non ci ho visto più: ero furente. Era un gioco tra loro e per loro, per celebrare la loro stessa esistenza facendo finta di essere contriti per quel povero (ma valoroso! Sicuramente valoroso! Indubbiamente valoroso!) morto che magari invece era solo uno sfortunato, sbattuto da una parte all’altra dell’Italia, tra gente di cui forse neppure capiva bene la lingua a sparare ad altra gente di cui non comprendeva l’idioma, ma che indossava colori diversi e tanto bastava per meritarsi una pallottola.
Ho provato uno schifo indicibile e ho continuato a provarlo durante tutti i servizi di propaganda che sono seguiti all’evento. Allo stesso tempo, parte di me era colma di tristezza per lui e tutti quelli che rappresentava, periti inutilmente e sviliti dopo la morte, utilizzati come marionette per permettere al Potere di usare parole come “sacrificio”, “valore” o “pietà”, termini che probabilmente avevano riguardato di rado (nell’accezione data dal Potere, almeno), la loro presenza sui campi di battaglia.
Ora, io so benissimo che avrei provato lo stesso queste emozioni qualche anno fa, data la mia forte avversione nei confronti della guerra e soprattutto del ruolo oppressivo degli Stati e delle loro autocelebrazioni, ma mi rendo anche perfettamente conto che, se non avessi giocato a “Trincea 1917”, la loro intensità non sarebbe stata la stessa.
Ho sperimentato sulla pelle il potere trasformativo del gioco di ruolo: tramite esso, sono riuscita infatti a formare dei pensieri chiari riguardo a un evento, pensieri che però hanno avuto anche un effetto fisico molto forte; il gioco mi ha infatti lasciato una rabbia che aveva obiettivi precisi togliendomi per un attimo dal senso di frustrazione generalizzato che provo di solito (e in questo periodo in maniera particolare) verso l’oppressione esistente.
A questo punto -e solo in maniera apparentemente scollegata, ma che nella mia testa ha tutta la logica del mondo- voglio citare nuovamente un’autrice ritrovata in “Fuori dal Dungeon”: “L’attivismo si basa sempre su un presente difficile che richiede soluzioni immediate, a breve termine, per arrivare tutti al giorno di resistenza successivo; in questa lotta per i frammenti di terra, ciò che si rischia di perdere è la visione di un mondo migliore. […] Il gioco di ruolo è un atto di “divenire” costante che permette una ricostruzione sociale consapevole (o almeno semiconscia)” (Katherine Cross – Role-Playing Games as a Resistance). Queste parole, la prima volta che le ho lette, mi hanno colpita come un pugno nello stomaco: mai come oggi sento la fatica della “vita politica”, il peso di danni enormi a cui non possiamo mettere che piccole pezze, spesso reagendo solo dopo che si è verificato qualcosa di brutto, o che il Potere ha stretto ancora un po’ di più le catene con cui ci lega. E, mentre vivo queste emozioni negative, penso davvero che non mi sia rimasta molta gioia o un futuro luminoso a cui puntare da tenere vivo nella mente e alla cui immagine attingere per darmi un po’ di energia in più. Non lo so se sia soltanto l’Inverno ormai arrivato (non esiste Autunno: c’è solo un’unica stagione di buio e freddo che invade ora l’emisfero settentrionale…), se si tratti degli strascichi della pandemia o di burnout dell’attivista o tutte queste cose assieme, ma, di nuovo, l’unica cosa che sento di voler fare, l’unico modo in cui desidero agire nel mondo, è il gioco, dove lo sguardo sulla realtà può finalmente rasserenarsi e dove posso reagire alle cose che mi succedono vedendo direttamente le conseguenze (di solito positive) delle mie scelte. E’ così che trovo ulteriori spinte verso i GdR e penso a come poter coinvolgere in essi le persone con cui sento una qualche affinità, per vivere assieme delle avventure che ci facciano bene in tutti i modi in cui giocare può essere terapeutico: perché distrae, perché ci insegna qualcosa di noi e delle altre, perché ci permette di provare delle sensazioni positive immediate e di cui necessitiamo per poter andare avanti durante il resto delle nostre esistenze. Certo, mi piacerebbe riuscire a proporre anche giochi “impegnati”: ad esempio, non ho mai avuto modo di provare “Dream Askew” di Avery Alder, basato sulla vita di un gruppo queer in un futuro distopico in cui tutte le diversità sono state escluse fisicamente dalla società; il progetto sembra molto interessante, ma è anche vero che, quando ho acquistato il manuale, avevo un’impostazione mentale diretta unicamente all’uso di dadi e statistiche, perciò trovavo molto difficile immaginarmi proprio come giocarci. Ora, invece, potrei essere meglio disposta nei confronti di un’esperienza più narrativa piuttosto che ad una orientata unicamente ad ottenere il punteggio più alto per la riuscita di un’azione. Inoltre, si tratta indubbiamente di un gioco che renderebbe vera la seconda parte della citazione di poco fa, in quanto il suo fulcro è proprio l’immaginarsi futuri diversi, nuovi generi e nuove relazioni, che potrebbe offrire un sacco di spunti interessanti anche nella vita politica del presente. Detto, questo, però, rimane il mio pensiero di base, ossia che resta politicamente rilevante anche il semplice tempo passato assieme a persone affini in leggerezza, sapendo che un’avventura sarà solo un’avventura, all’interno di un universo chiuso e ben separato dal nostro e la cui unica conseguenza sulle nostre esistenze sarà un po’ di sano divertimento antistress.