Poco tempo fa su Femminismo a Sud eravamo tutt* invitat* a riflettere sulla violenza e sul fatto che fosse o meno una cosa strettamente legata ad un genere piuttosto all’altro. Ci ho pensato anche io, con i miei tempi, e devo dire che la risposta non è facilissima da esporre in maniera chiara.
Ovviamente la violenza di per sé -ma non ci vuole molto a capirlo- non è prerogativa di una singola categoria di persone: è un fenomeno che tocca tutto e tutt*, trasversalmente ai generi, alle età, alle classi sociali ecc… Esistono uomini violenti e donne violente; ragazzin* violent* e anzian* che si esprimono con violenza, bianch*, ner*, ross*, giall* e blu violent*, facchin* e presidenti/esse violent*. In un certo senso, la violenza non discrimina e si accompagna benissimo a chiunque, pur esprimendosi in maniera diversa a seconda di chi la agisce. Ma qui stiamo parlando di concetti chiari anche a bambin*.
Il punto fondamentale su cui mi sono focalizzata dopo il post su FaS e che forse ha scatenato la maggior parte dei commenti è che, secondo me, se la violenza non ha genere, esiste però una violenza maschile, che è un concetto un po’ diverso. Per violenza maschile intendo (ma non è un termine inventato da me) quella che porta, al suo culmine, al femminicidio: una violenza che ha caratteristiche precise e che è profondamente radicata nella società patriarcale. Si tratta, insomma, di un problema degli uomini che, però, si riflette sulle donne e questo perché è lo strumento che il patriarcato mette in mano ad una fetta della popolazione mondiale per tenere a bada l’altra e mantenere così lo status quo.
Trovo sconcertante vedere quanti uomini, posti di fronte a questo problema, scattino subito sulla difensiva cercando spesso di minimizzarlo o affrettandosi a dichiarare che “no, io non ho mai stuprato/picchiato/ucciso”, perché penso si tratti di un tentativo di sviare il discorso in modo da non mettere realmente in discussione il proprio ruolo, o meglio quello che la società ha affidato loro.
Confesso che mi fa anche abbastanza imbestialire quando, introducendo il problema della violenza maschile, subito saltano fuori i cosiddetti “controesempi” riguardanti le “donne maltrattanti”; in questi casi mi arrabbio non perché gli eventi citati non esistano, ma perché, secondo me, il paragone non ha senso per ben due motivi: innanzitutto, perchè non si tratta di una violenza sistematica (nessun uomo viene mai ucciso in quanto uomo: non esiste il “maschicidio”) e, secondariamente, perché, sebbene alcuni esempi rientrino con precisione nell’ambito delle violenze del patriarcato, il peso (sociale) della cosa è differente. Ad esempio: un uomo viene maltrattato dalla compagna e non può difendersi o dirlo ad altr* altrimenti non verrebbe creduto e/o verrebbe deriso. Sicuramente per quest’uomo realizzare che la società, invece di dargli una mano, ne approfitterebbe per ferirlo ancora di più è angosciante. Si tratta, infatti, del rendersi conto di vivere in una cultura che ti costringe dentro determinati ruoli e, appena ne esci per un motivo o per l’altro, ti schiaccia. E’ un’esperienza terribile ma, per quanto oggettivamente terrificante, non credo che per il caso citato e in quelli a lui simili si possa parlare esattamente di “emergenza” sia in termini numerici che in termini di “baratto” (ossia di come la società ti ricompensa se accetti di ritornare nel ruolo che ha cucito per te -v. il discorso sul privilegio poco più in sotto), così come non ho dubbi sul fatto che, invece, risolvere la questione della violenza sulle donne sia urgente: è evidente, infatti, il luogo (e i modi) dove si verifica l’emorragia; il patriarcato, insomma, va distrutto e con la sua distruzione avremo una società dove le donne non vengono uccise in quanto donne e dove chiunque sarà liber* di esprimersi, a qualunque genere appartenga.
Ma perché è così difficile per molti uomini ammettere che esista il problema della violenza maschile? Un caro amico, relativamente poco tempo fa, mi ha fatto riflettere sulla questione del “privilegio”: in effetti il patriarcato, sebbene schiacci chiunque in ruoli preconfezionati, sa bene come distribuire bastoni e carote, ed è palese che esista una parte di popolazione che ottiene più benefici che danni da una determinata cultura. Ammettere che esista questo problema, per qualcuno significherebbe mettere in dubbio la base su cui il proprio privilegio si fonda e concordare sul fatto che, pur non picchiando, stuprando ed uccidendo, è da botte, stupri ed omicidi che questo privilegio trae la forza. Con questo non dico -mi pare ovvio- che gli uomini siano tutti violenti, ma è chiaro che è molto più difficile per loro rendersi conto di quanto alcuni atteggiamenti che possono (e sono incoraggiati ad) assumere contribuiscano a ungere la ruota del patriarcato e a mantenere inalterata la questione della violenza sulle donne. Detto ciò, è facile comprendere come mai la violenza maschile sia un problema la cui esistenza viene spesso negata. Faccio un esempio un po’ diverso: io, come persona bianca e appartenente ad una determinata classe sociale sono consapevole di avere dei privilegi e, sebbene non abbia mai personalmente ridotto in schiavitù un/a bambin*, riconosco che la società capitalista in cui vivo mi rende complice della sofferenza di milioni di bambin* nel mondo, perciò tento di fare qualcosa, di modificare il mio stile di vita e di sensibilizzare quante più persone possibili sull’argomento, in modo che la catena della complicità si spezzi. E’ così difficile rendersi conto delle proprie responsabilità? Pare che in alcuni casi lo sia.
Spero quindi di aver risposto alla domanda posta da FaS e aggiungo che la violenza è sempre da condannare, ma non è un errore ammettere che esistano vari tipi di violenza, con origini diverse e con diverse implicazioni sociali. Solo in questo modo, infatti, è possibile trovarne le radici e contrastarle per, infine, estirparle.
Breve nota: in questi giorni ho assistito a molte discussioni, a volte solo vagamente relative a questo argomento. Ho letto che bisognerebbe ascoltare tutte le parti (come se esistessero buoni o cattivi) e cercare di capire chi si fa portavoce di una determinata cultura (sia in fatti che solo a parole). Ebbene, pur rispettando i percorsi singoli e non dividendo il mondo in buoni e cattivi, so benissimo con chi non ho intenzione di parlare: a me non interessa il confronto con chi picchia e stupra o uccide, così come non mi interessa parlare con chi si definisce maschilista, o chi si dichiara orgogliosamente antifemminista (come se ci fosse di che andare fieri nell’ammettere di essere contrario alla creazione di una società giusta e paritaria…). Queste persone sono coloro che non riconoscerebbero il problema della violenza maschile, che lo sminuirebbero o che cercherebbero di cambiare il discorso. Mi dispiace, ma ho una lotta da portare avanti e poco tempo da perdere.
Contrariamente, spenderò tutti i più insignificanti minuti del mio tempo cercando di fare informazione, di diffondere cultura, in modo che, nel mio piccolo, potrò far germogliare qualche seme di riflessione. Non sarà la mia azione solitaria a cambiare il mondo, però conosco molte persone che stanno percorrendo la stessa strada con me e questo mi dà forza.