Sogno o son desta…

Rapido resoconto di una nottata oniricamente intensa e piacevole come non me ne capitavano da molto, ormai (con mio enorme rammarico).
Abitavo in Sardegna in una casa molto grande e luminosa. Le stanze erano ampie e belle: mobili semplici, colori allegri, pavimento di piastrelle che parevano di cotto; un misto di nuovo e tradizionale che dava un senso di calore piacevolissimo. Ci stavo bene. Non ero da sola, in quella casa: lo spazio consentiva infatti che ci abitassimo in molt*. Non ho idea di quant* fossimo in totale, ma ricordo chiaramente l’impressione che si trattasse di una bella combriccola. Sull’ordine della deci-quindicina, insomma. Non ricordo tutt*, forse neppure si trattava di persone che conosco realmente: i visi si confondono facilmente. Sicuramente c’era Dxxx -lui me lo ricordo bene. La cosa buffa è che tutt* noi lavoravamo per la stessa azienda: si trattava di un grande negozio e noi eravamo i/le commess*.

Avevamo anche due gatti: la mamma, nera e a pelo corto, e il cucciolo, un magnifico bestio dispettoso rosso tigrato. Del piccolo ero follemente innamorata: era giocherellone e tenero e molto intelligente. Anzi, saggio. Lo dico con cognizione di causa perché, effettivamente, lui comunicava. Non credo parlasse veramente: forse sentivamo (o sentivo) semplicemente la sua voce nella testa, ed era una voce infantile. Però non faceva discorsi da bambin*: pur con lo stesso tono, pur masticando qualche parola, sapevo che stava dicendo cose molto interessanti e che facevano riflettere. Ovviamente alternava i suoi momenti di saggezza ai momenti svago: giocava fino a stremarsi per poi crollare addormentato. Io lo seguivo in tutto: non volevo che si cacciasse in guai o si facesse male finendo sulla strada; sapevo che lo avrei protetto a costo della mia vita. Lo amavo e basta.

Quella mattina ci giunge la notizia che noi commess* non avremmo dovuto lavorare nel solito posto, ma che per un’occasione straordinaria eravamo tutti trasferiti (solo per quel giorno) a Granada, nel sud della Sardegna (ovviamente le mie conoscenze geografiche sono nulle anche durante la mia vita onirica). Chiedo conferma della sua localizzazione ad un coinquilina -che sembrava essere la mente organizzativa di tutto il nostro gruppo- che, ovviamente, annuisce: è proprio a sud della Sardegna. Dovremo prendere le macchine e spostarci. Inizio a canticchiare la canzone “Granada romanticaaaa”, cosa che fa annuire nuovamente la mia interlocutrice e sorridere “Sì, proprio quella”, mi dice di rimando.
Mentre giro per la casa, incrocio Dxxx che è abbastanza incazzato con la direzione del negozio. Non so se l’oggetto della sua furia sia il nostro improvviso trasferimento o una serie di altri problemi (ovviamente il nostro è uno dei classici lavori-sfruttamento), però lui è deciso a protestare. Prima di partire, chiede ad un nostro coinquilino un favore: in quattro e quattrotto questi gli confeziona una collana passando dello spago grezzo infilato in un ago attraverso delle piastrinette quadrate profumate (delle dimensioni di una “tessera fedeltà”, per intenderci) che non riesco a capire se fossero di cartone (e quindi funzionassero vagamente come la “carta d’eritrea”) o di sapone. Oppure plastica. Il succo, comunque, è che lui avrebbe manifestato il suo dissenso e protestato col profumo: un metodo che non sarebbe passato inosservato, perché tutti, camminandogli accanto, se ne sarebbero accorti. Era anche un buon profumo. Fresco, di fiori. E la direzione non avrebbe gradito sicuramente, pur non potendo fare granché contro una protesta così smaccatamente pacifica. Sorrido: è un’idea geniale, cazzo!

Dopodiché la scena cambia: mi ritrovo da sola, in casa. Sono l’ultima a dover ancora uscire per partire verso Granada, ma devo assolutamente fare qualcosa. In questo qualcosa c’è il gattino rosso ad assistermi; lui mi guida verso la ricerca di alcuni scrigni nascosti nella nostra abitazione che ora si è trasformata in un castello (ma non buio e tetro: un bel castello, rassicurante d’aspetto anche nei posti più nascosti). Non so per quale motivo io debba trovare questi tesori; lo devo fare e basta, immagino. E poi il micio sa il fatto suo. Ricordo che ne avevo già trovati uno o due. Mi mancava l’ultimo. Il gatto mi porta nella torre, alla quale si accede solo attraverso la finestra (non ho memoria dell’arrampicata affrontata per arrivare lassù in cima). La stanza è piacevole: c’è un tappeto viola, un comodino, una sedia-poltrona dall’aspetto comodo; credo anche un caminetto. Arazzi alle pareti illuminate dal sole che entra dalla finestrella (da cui si scorge il cielo azzurro). Lo scrigno si trova dentro il comodino. Lo apro e dentro trovo qualcosa che non ricordo (credo -nel senso che mi pare di aver trovato più cose lì dentro) e dei pastelli. Questi sono nuovissimi: lisci e dalla punta perfetta. Il bastoncino di legno è colorato di nero e in fondo c’è una parte di circa 2 cm colorata del colore della mina. In questi 2 centimetri in bei caratteri corsivi/gotici dorati è scritto il nome del colore. Ogni nome è composto, come, ad esempio “verde smeraldo” o “rosso rubino”, ma il secondo nome è molto fantasioso: al posto di “smeraldo” e “rubino”, infatti, ci sono altre parole -che non ricordo- che rendono il nome stesso del colore poetico (per rendere un’idea, potrei inventarmi la combinazione “bianco anima”, anche se i nomi erano meno banali…). C’è di più da dire: il nome del colore sembra quasi una formula magica. I pastelli che ricordo sono tre: due che si chiamavano “nero —–” (ma uno dei due era un marrone) e uno era d’oro. Ricordo di aver provato il pastello dorato su un foglio di carta e, incredibile, colorava proprio d’oro, con l’effetto del metallo. Era meraviglioso. La cosa stupefacente è che, come mi viene spiegato in quell’istante -non sono più sola nella stanza: c’è molta gente, venuta da non so dove- è che i pastelli assumono un colore diverso a seconda di col*i che li possiede. Cedendoli in mano al/la mi* interlocutore/rice, vedo uno dei tre trasformarsi in verde. Insomma, finiscono per rappresentare con i loro colori la persona che li deve usare.
Sono molto felice di quel tesoro, ma scopro ben presto che le cose non possono filare così lisce: a guardia dello scrigno, infatti, c’è una Regina. E’ lei che devo battere per poter tenere i pastelli. La sfida è una guerra di parole/frasi/filastrocche. Inizia la Regina e io devo ribattere. E’ molto difficile: è faticoso, sono in affanno (fisico) mentre ripeto una sorta di formula-poesia in risposta a ciò che la guardiana mi ha detto. Alla fine, mentre sono quasi accasciata a terra (ora guardo la scena dall’esterno e io non sono più io, ma ho l’aspetto di un mio amico), riesco a recitare tutti i versi correttamente e la Regina è sconfitta. Non succede nulla di eclatante: non c’è sofferenza nell’avversario battuto. Lei, infatti, accetta la sconfitta e mi concede di tenere il contenuto dello scrigno. La sua corte (il resto delle persone -o forse fantasmi- che erano comparse nella stanza) fa addirittura festa.

La sveglia suona e il sogno finisce lì, senza lasciarmi scoprire che cosa dovevo fare con i tesori trovati e perché il gatto voleva che io li scovassi…

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