Analisi precisa e puntuale di un’emozione

Vivendo la mia attuale esistenza sull’onda di ciò che ha lasciato in me il Fem Blog Camp, provo a scrivere un paio di cose che ho bisogno di inviare nel mondo e provo a farlo n maniera tranquilla e ordinata, nonostante le emozioni che suscitano in me siano tutto tranne che pregne di ordine e tranquillità.

Devo però premettere due cose:

1) gli aneddoti che racconterò qui (per oggi solo uno, perché è già tardi e ho sonno) sono importanti più per me che per il mondo: sono la testimonianza di un cambiamento in corso, di un metro in più nel mio personale percorso di crescita e li percepisco fondamentali. Cose di cui non posso dimenticarmi.

2) ogni racconto è falsato dalla mia prospettiva: la telecamera tramite cui registro gli eventi è il mio cervello, non sempre lucido e preciso nella memorizzazione, soprattutto nel mezzo di accadimenti che mi stordiscono di emozioni. Tento, generalmente, di non essere troppo clemente o inclemente con me, per quanto mi renda conto che ogni narrazione è per forza di cose abbellita e resa “letteraria” (non un capolavoro, certo, ma, spero, abbastanza godibile), perché sono pure narcisista. Altrimenti non avrei un blog, isomma!

Quindi posso iniziare.

E’ capitato, appunto, al FBC: lei parlava, spiegava, interagiva. L’argomento era interessantissimo: una novità per me e mi catturava completamente. C’ero dentro; le sinapsi facevano scintille nello sforzo di ricollocare nozioni e osservare parte della realtà da un punto di vista nuovo e provavo la stessa meravigliosa sensazione di quando faccio una scoperta, anche se non era tutto merito mio.
E poi, cos’è successo? Non lo so, ma mentre parlava l’ho guardata e vista e mi sono ricordata di quanto avvenuto qualche momento prima (un’ora? Due? Tre minuti?) mentre parlava in corridoio e non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso, sorpresa com’ero dell’effetto che faceva: era un misto tra familiarità e attrazione. L’avevo già incontrata? E se no, perché mi sembrava di essere contenta di rivederla? E poi era semplicemente bella: che piacere osservarla…
E così ho ascoltato cosa aveva da dire, ho riflettuto e, intanto, l’ho guardata, felice delle sensazioni che mi regalava. Ho deciso che quanto mi faceva provare mi aveva arricchita, era fantastico e non ci sarebbe stato niente di più bello se non condividere con lei questa cosa: dopo una birra -sana infusione di coraggio- l’ho avvicinata e le ho confessato un limpido “Mi piaci tanto”. Ricorderò la sensazione di tuffarmi nell’acqua gelida, la camminata al rallentatore per raggiungerla, la vertigine (so di averla definita così) di presentarmi radiosa ed indifesa davanti a lei, accompagnata da una banalissima verità. Ha sorriso e riso, ancora più bella. Poi me ne sono andata, lasciandola alla sua compagnìa.

Il giorno dopo è stato faticosissimo: ero ancora ubriaca di quella sensazione. Vagavo senza meta per le stanze del centro sociale. Speravo di incrociarla e, poco dopo, di non rivederla fino all’indomani, per darmi così il tempo di riflettere su quanto mi stava accadendo. Galleggiavo gagliarda, mentre metà del mio desiderio -la parte più piacevole- si avverava (impossibile, infatti, evitare qualcuno all’interno di uno spazio così ristretto) ed ero sempre più contenta ogni volta che ci incontravamo/scontravamo, scambiandoci qualche mezza parola e sorrisi. Dopo una breve telefonata ad un’amica in grado di rendermi edotta sulle relazioni interpersonali e le convenzioni sociali, decido che avrei almeno provato a parlarle un po’ più a lungo: in fondo, non ci saremmo probabilmente più riviste e sarebbe stato bellissimo se fossi riuscita a portare via con me una scorta di quel benessere.

Purtroppo, l’occasione è sfumata e la mattina dopo dovevo partire presto. In preda all’irrefrenabile (e narcisistico) desiderio di donarle un pezzo di me, decido, a colazione, di lasciarle un messaggio scritto. La motivazione, in realtà, non è così semplicistica e narcisa: io avevo bisogno di dirle quanto poi uscito dalla mia penna perché stava rompendo ogni diga di autocontrollo, perché era bellissimo, perché non poteva essere (e non era!) cosa solamente mia, ma apparteneva anche a lei; perché era l’unica cosa che potevo regalarle in cambio. Non voglio essere fraintesa: mi sembra di sentire un sottofondo di campane e cori angelici mentre rileggo quanto appena scritto, mentre, in verità, le sensazioni che provavo non erano platoniche. Erano reali e palpabili (pur solo nell’universo parallelo del mio stomaco) e cariche di desiderio fisico. Non per questo, però, erano egoiste e “torbide” (qualunque cosa significhi), come magari insegnano a vivere certe cose, a noi brave ragazze.

Non ricordo le parole della lettera e a stento i contenuti, se non parliamo in termini generici delle emozioni comunicate, che sono le stesse di cui sto scrivendo qui. So che, alla fine, le ho confessato che avrei voluto chiederle un bacio, anche se avrei preferito farlo di persona, perché le avrebbe reso giustizia, in un certo senso: sarebbe stato un rapporto paritario, una di fronte all’altra. Che il bacio fosse arrivato oppure no, era irrilevante: di nuovo, ciò che contava, era offrirle tutta la magnifica verità che mi portavo dentro, che era merito suo e per la quale sentivo il bisogno di ringraziarla.
E poi mi sono firmata, solo col mio nome. Nè un cognome, un numero di telefono o una mail. Io non volevo essere rintracciabile: non volevo nulla in cambio, una risposta, un contatto, un’espressione di gratitudine, un commento. Volevo esistere solo in quel momento, perché era ciò che mi avrebbe permesso di esprimere la percentuale maggiore di sincerità.
Con queste intenzioni, alla fine sono riuscita a consegnarle la lettera.
Che mi abbia comunque trovata, o che sia riuscita a dirglielo anche di persona, che avrei voluto baciarla, e che ora io sappia come “rintracciarla” è un’altra storia e fa parte di una strada diversa.
Io sono felice del momento presente che ho vissuto grazie a lei e che mi porterò dietro come parte della mia personale leggenda di evoluzione.
Ancora grazie, che tu legga mai questo scritto oppure no.

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Fiumi di latte

Fiumi di latte, come dire “tanta grazia”: sono giorni che sono felice, felice come non mai, su di giri, sorridente e spensierata.
Lo so di cosa è colpa: è stato il Feminist Blog Camp. Non sono in grado di dare una valutazione politica dell’evento, in quanto mi considero immatura da questo punto di vista: ho molto da imparare e molta voglia di ascoltare milioni di versioni, prima di riuscire a dare forma al mio pensiero. Questo in generale; sui movimenti femministi e quanto orbita loro intorno, poi, è ancora peggio. La verità è che so molto poco. Potrei dire di sapere di non sapere, se questo non fosse una frase indubbiamente inflazionata e pure snob, pregna di falsa modestia.
Però posso parlare a livello personale di quello che ho sentito e che continuo a provare, cosa che sto dicendo a tutti, elargendo entusiasmo a fiumi su chiunque abbia la sventura di starmi a sentire: momenti di pura felicità. Mi sento come se fossi innamorata e consapevole di essere ricambiata (in effetti una mezza cotta temo comunque di essermela presa sul serio, ma questo è un discorso a parte): non avevo mai vissuto la realtà del centro sociale e l’Askatasuna è stata una sorpresa. L’aria che si respirava era pacifica ma determinata: un posto che sapeva di esistere e che dichiarava il suo diritto a essere nel mondo con una pacata decisione da lasciare sorpresi; non chiedeva permesso, non bussava. Se fosse stata una persona, avrebbe avuto gli occhi luminosi e un’espressione del viso distesa.
E invece di persone ce n’erano molte, non solo una, come dentro un alveare, ma senza regine. Oppure pieno di regine, non lo so esattamente, perché nessuna era riverita, ma tutte collaboravano seminando, nel loro muoversi da una stanza all’altra, da un impegno all’altro, un’energia che mi faceva solletico all’ombelico e ridacchiare come incantata.
La cosa di cui mi sono subito stupita è che la maggior parte di quelle facce mi erano familiari, sebbene avessi frequentato alcune delle presenti solo tramite mailing list e blog. Non solo: erano tutte belle! Era pieno di belle persone: ovunque mi girassi, sentivo che avrei potuto innamorarmi di una qualsiasi di loro. O di tutte, giusto per non farmi mancare nulla.
Se ripenso al viaggio in treno, affrontato da Udine (con partenza alle 6:30!), mi viene da sorridere: nonostante la levataccia, non riuscivo a dormire. Mi sentivo come se stessi andando ad un appuntamento al buio (espressione che rubo alla ragazza che viaggiava con me quel dì, che aveva già provato la stessa cosa mentre si dirigeva all’Hackmeeting a Firenze). Non che avessi in testa delle aspettative: era il puro entusiasmo di incontrare finalmente un’amica dopo una lunghissima lontananza.
Non sono in grado di citare tutte le persone che ho incontrato: chi ho riconosciuto tra la folla per averla sentita nominare o per una “sensazione”, chi mi è stata presentata, e poi chi non avevo invece mai conosciuto prima, ma con cui sono riuscita subito a parlare (io! Patologicamente timida come sono!), come se fossimo già unite da qualcosa e questo non fosse altro che un appuntamento fissato dal destino (rileggendo questa frase, confesso che sembra molto più epica di come l’ho pensata nella mia testa).
Ho amato tutte quelle sorelle e fratelli e non li chiamo così senza un motivo: mi sono sentita  casa.
Allora dedico il mio pensiero felice ed innamorato a loro (in ordine assolutamente sparso e pure se di me non si ricordano): Furiosa; Lafra; Fikasicula; Drew; Lucha; le ragazze del Video Box e le ragazze di Bologna (sono una frana coi nomi, sigh); Slavina, la sua bimba e Kevin; Valentine (si scrive così? Ve l’ho detto che sono una frana coi nomi); un sacco di volti senza nome ma ricchi di sorrisi; nomi che iniziano con la D, ma che non so proseguire; Jo; i tre ragazzi con cui ho ballato sganasciandomi dalle risate; le dj; la ragazza che faceva una tesi di laurea sulla Medusa; tutte le persone che ho incrociato sulle scale, nei corridoi, nelle sale e con cui ho scambiato, magari, solo la parola “permesso”, o magari neppure quella, ma il tutto condito da un sacco di sorrisi.
A tutti gli sguardi luminosi e a me, ancora intontita e stupita, che continuo a camminare a mezzo metro da terra.

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Ambientazione

Eccomi qui, approdata ad una nuova piattaforma.
Avevo un altro blog, da qualche parte, ma è morto per cause naturali, quando una parte di me ha iniziato a morire. Mi dispiace, ma lo ricorderò con tenerezza: dubito sarò in grado di rianimarlo, dubito che voglia ritornare dal magnifico posto dov’è andato. La poca gente che mi seguiva di là, se è destino, sarà in grado di trovarmi: non ho intenzione di linkare nulla né qui né dall’altra parte. Sono un’altra me, amara e dolce, e un po’ diversa da qualche anno fa, perciò tratterò i punti di arrivo e partenza come scollegati tra di loro, in barba a tutta la filosofia a cui credo fermamente (ma credo anche che sia necessario recidere ciò che sopravvive a stento).
Non ho ben chiaro che cosa farò, ora, di questo spazio: non intendo dargli un’impronta o una tematica, essendo i miei interessi piuttosto ampi (e, ahimè, spesso fin troppo poco approfonditi).
Comunque, benvenuta a me. Ad una nuova Amara-me.

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