Io robot, io entessa

Meccanocuore vibropotente per parlastalgia polsofferente e moziosforzo linguonodante.

Ritorna a me! Ritorna a me, e di’ ch’è bella la mia campagna!
[J.R.R.Tolkien_L’Ent e l’Entessa]

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Dedicated to a friend

Oh rucola

Oh, Rucola, I will never forget that hot summer…

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La solita solfa

E mi ritrovo ancora qui a pensare allo sguardo delle altre persone. Non per schivarlo o per cercare di adeguarmi ad esso (non adesso, almeno), ma per cercare di capire il senso delle loro parole quando dicono cosa vedono. Cosa vedono in me. Per la seconda volta (che io ricordi) mi è stato detto che rinnego la mia femminilità. Una parola che diventa ostacolo insormontabile: inconoscibile, indefinibile, sdruccioloso, sfuggente; mi cola via come l’acqua dai capelli e mi blocco, perché non so cosa controbattere. Eppure io mi sento… Un momento: mi sento femminile?
Nel momento in cui esce questo giudizio definitivo (“Non capisco perché tutte le lesbiche qui in Italia rinneghino la propria femminilità”), passo in rassegna le donne che ho conosciuto, quelle di cui mi sono innamorata o verso le quali ho provato attrazione. Non ne trovo una uguale all’altra: nessuno stampo, nessun segno di indiscutibile rinnegamento della propria femminilità.
“…almeno tu hai i capelli lunghi”.
Oh, sono quasi salva, allora. Come se lo facessi per coprire la mia “vera natura maschia” e non perché sia momentaneamente ferocemente innamorata dei miei boccoli.
Quindi, capelli a parte, tutto il resto di me sa di “uomo”.
Forse è perché quando sono rilassata tendo ad espandermi: allungo ed allargo le gambe, dove possibile; e anche le braccia. O mi accarezzo la pancia, oppure la percuoto improvvisando una sessione ritmica. O…oh, dei, posso addirittura ruttare. E io che credevo che fosse una vittoria, rispetto a quando ero piccola/giovane ed insicura e dovevo sparire dalla vista di tutt*; quando dovevo accertarmi di occupare il minor spazio possibile, perché già il corpo sfuggiva al controllo della mia volontà urlando “Hey, sono qui!” con le sue misure. Non che ora vada meglio: quando sono con persone che non conosco, di solito, cammino il più silenziosamente possibile, parlo a bassa voce, me ne sto seduta a gambe strette, braccia incrociate, testa bassa e cose così. Però, almeno, ora come ora mi concedo di perdere un po’ di controllo, di rilassarmi. Con poche selezionate persone. Un passo alla volta. Evidentemente, però, sto camminando sulla strada sbagliata, perché, così facendo, non faccio che rinnegare la mia “vera natura”. E, pare, peggioro tutta la situazione non truccandomi, non depilandomi, o perché gli ormoni ordinano al mio corpo di lasciar spazio ai baffi e ai peli sul mento coi quali sto cercando di far pace (con scarsi risultati).
Quindi cercare di accettare quello che sono è, allo stesso tempo, rinnegarmi. Un enigma da cui mi sembra di non poter uscire. Divertirmi, stare comoda, dire al mio inflessibile giudice interiore di andare a morire male per un po’ significa “essere la solita (deludente, mi par chiaro) lesbica”.
E in quel momento penso a cose che, sono sicura, ho già scritto altrove, in questa sede: quanto mi piaccio, quando me ne sto nuda davanti allo specchio, o quando penso a cose dolci e mi sento pervadere di stelle e aurore boreali e inizio a convincermi che il mondo sia bellissimo anche perché ne faccio parte. E mi considero incredibilmente donna, sebbene non sappia esattamente cosa voglia dire.
Nello stesso istante, il mio cervello mi propone un’immagine del passato (non così remoto, né, tuttora, così innocuo e facile da ricordare senza che lasci strascichi e dubbi): una delle tante volte in cui, sempre davanti allo specchio, mi scrutavo, cercando di scavarmi dentro, di entrarmi negli occhi arrossati dalle lacrime e sussurravo “Cosa c’è che non va, in me? Perché sono così sbagliata?”.

Forse, dopotutto, tentare di continuare ad essere la “solita lesbica” non è poi un’idea così brutta.

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Spillo

Questo dolore non lo conosco. Lo osservo da fuori e lo sento contemporaneamente, perciò rimane difficile dargli dei contorni.
Questo dolore non lo capisco. Non ha senso. Nessuno, tranne incontrollabili reazioni chimiche nel mio cervello.
Questo dolore non lo cancello. C’è e non posso fingere; ha delle dipendenze, ma vorrei saltare di mille anni avanti a me.
Questo dolore lo disconosco: nel suo cuore pulsante io sento che è inutile, che domani o dopodomani, o tra tre anni (tre piccole spaccature nell’indistruttibile guscio della realtà), sarà svanito, sarà un ricordo. E lì, e lì sarà.

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Aritmia 2

Non sopporto lo sfregare della carta sui miei polpastrelli. Miti dovrebbero essere tramandati su come quella sensazione tattile rubi l’anima e allontani ogni possibilità di essere felice; è successo così tante volte, che oramai non dovrei avere neppure più speranze.

Ma oggi non mi interessa: ho promesso che avrò un futuro.

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Aritmia

C’è qualcosa di  curiosamente sensuale nella sensazione che si prova addentando un dattero gigante. Deve essere la consistenza della polpa o il fatto che la lingua sia costretta a scavare alla ricerca del nocciolo.
Oppure per la dolcezza estrema del frutto.

Non piango quasi mai, quando mangio i datteri.

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Eppure sentire

C’era una volta un coboldo che era il più bel coboldo di tutti i coboldi. Ovviamente questo non significa che fosse “bello” in assoluto: in fondo, che ne sappiamo dei canoni estetici dei coboldi? Ai nostri occhi, magari, sarebbe apparso orribile e bitorzoluto e gobbo e storto. Ma dei gusti non sarò certo io a discutere.
Accadde un giorno che il più bel coboldo tra tutti i coboldi si innamorasse di un cipresso che, invece, sono senza ombra di dubbio (e non accetterò obiezioni) gli alberi più belli del mondo. Solo che i cipressi sono alberi molto lunatici: non che non ricambiasse il sentimento, ma a volte si lasciava pettinare la chioma punk dall’amato e a volte, invece, se ne stava ad occhi chiusi, indifferente alla presenza dello gnometto blu che si sedeva, schiena appoggiata al tronco, a sospirare sconsolato.
Si domandava: “A che mi serve essere il coboldo più bello di tutti i coboldi, se questo non mi rende felice e amato?”. Solo che si sbagliava, perché il cipresso, mentre si isolava dal mondo, pensava: “Sono l’albero più bello del mondo e amo il coboldo più bello di tutti i coboldi: sono proprio fortunato!” e bruciava di intensa gioia dentro, perché gli alberi preferiscono le fiamme interiori a quelle esteriori, che, spesso, hanno effetti spiacevoli su cose delicate come il legno.
E quindi il coboldo alternava felicità e intensa tristezza, mentre il cipresso era sempre contento e tutto questo perché non erano in grado di parlarsi: il coboldo aveva paura di chiedere e scoprire che, magari, i suoi dubbi erano realtà. Il cipresso pensava che fosse palese tutto ciò che provava.
E quindi, ci possono essere solo tre conclusioni a questa storia:

1. il coboldo ed il cipresso si lasciarono perché non impararono mai a comunicare

2. il coboldo tenne per sé la propria tristezza, sforzandosi di godere al meglio dei momenti di felicità, ma finì per minare profondamente la propria autostima perché il pensiero che sorgeva sempre, quando il cipresso si isolava, era che, in realtà, non era abbastanza degno d’amore. Vissero comunque insieme per sempre, ma non felici. Non entrambi.

3. il coboldo trovò il modo di esprimere i suoi dubbi e lui ed il cipresso parlarono a lungo, fino a che entrambi riuscirono a trovare un compromesso: il cipresso avrebbe provato ad esprimersi di più ed il coboldo avrebbe rispettato i necessari momenti di solitudine del cipresso.

Ma non so, non so proprio come andò a finire.

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Contare

Fino a sette: è normale.
Otto: fa un po’ male.
Salto a dieci: sembra sale.
Undici: par scemare.
Dodici: non pensare.

 

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Così come me l’immagino

Situazione di socialità. Musica alta, ma piacevole. Testa che si muove e lei, lei bella bella bella, laggiù. Ore di pensieri, di sì e di no, di pro e contro, di lenta e sudaticcia accumulazione di coraggio. Aspetto accaldato, cuore nelle tempie, ronzio nelle orecchie, budino nelle gambe che “eppur si movon”. Respiro profondo:

– Hey, ciao. [Esitazione, rincorsa, salto, farfugliamento] tivadiballare?
– Prego?
– … [Panico, incerto annaspare] …radiocollare…?
– Eh??
– [Crisi completa, allarme rosso, esploso desiderio di morte] …INCURSORE ANALE!

Game Over

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Crostata al rabarbaro

E quello che resta è una sensazione dolce che scivola via lentamente. Sono sospiri, canzoni sussurrate alle stelle e qualche illogica percezione. E ricordi. Ricordi?
Ho bevuto come fosse l’ultima goccia d’acqua nel pieno deserto; respirato come se mi aspettasse un naufragio nello spazio infinito. Atteso, lasciando che la polvere si posasse su ogni cosa, mentre la coscienza si adagiava

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