Ogni cosa che mi lacera

Osservo la mia ombra mentre cammino: un’orsa sgraziata. Non tornerà l’eleganza della pesca ai salmoni. Prendo coscienza di questo, come del lieve senso di indifesa vergogna, notando che le mie mani sono alte, in una goffa guardia, pur gesticolando e fingendo sia niente. Mi sento sconfitta.
Mi tocco le labbra, mi mordo una nocca per provare qualcosa.
“Come sono belli, i treni nella notte”.
Volevo starmene in silenzio, per un po’, e guardare le stelle. Respirare.
Invece guido con una mano sola e una strana, inverosimile sensazione tattile nell’altra, pari a un (terzo) arto fantasma: più mi allontano, meglio lo sento. Lo trovo ridicolo, perché di solito, invece, cerco di evitare il contatto con tutta me stessa. Perché rifuggo il coraggio, indegna.
In tutto questo, io non capisco. Eppure sono stata viva, perché lo sentivo, quel cuore, mentre annodavo nastri rossi: era indubbiamente mio, come il sangue accelerato, come il caldo sulle guance e la luce negli occhi ed il tremore delle mani ed in tutto il mio sgraziato essere da orsa.

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Nella notte

E, all’improvviso, lottando col sonno del rientro e di una giornata finita, resistendo al caldo del sole adagiatosi sulla pelle, mentre canto una canzone di cui conosco solo metà delle parole (ma la melodia mi piace: è divertente), ti vedo. E smetto di cantare, con lo stomaco che scende pian piano, ritornando nella sua sede. E non ti vedo soltanto: ti sento. Io, che non ricordo i profumi, che non ricordo i colori, che non trattengo nella mia mente alcun tratto passato attraverso i miei occhi. Io, che analizzo la mia vita quasi soltanto attraverso le sensazioni, come fossero invisibili onde che plasmano le scogliere che mi contengono.
Riprendo a cantare e ballare sul sedile della macchina, ma ormai sei qui. Non posso fare a meno di domandarmi il perché e se stia capitando che, nello stesso istante, io sia lì. Ovunque si trovi quel “lì”. Con te.

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Colline

Guido, nel tardo pomeriggio di una giornata di sole. Ascolto la radio, cercando di non pensare ad un lutto fresco, una perdita comunicatami meno di mezz’ora prima. La sensazione è quella di un rimbalzare costante tra un dolce oblio e la dura realtà dei fatti: non lo vedrò più. Farebbe quasi ridere -se non fossi così triste- dato che sto pensando ad un cane.
Cambio stazione se le canzoni non mi piacciono: un’abitudine nuova, per me, sempre alla ricerca di stabilità; un’abitudine che collego a te. Mi cullo nella sensazione di sonnolenza che mi avvolge nell’abitacolo troppo caldo, ma non mi va di abbassare i finestrini: l’aria potrebbe essere troppo fresca e sarebbe, anche quello, un feroce ritorno alla realtà.
Mi distrae il paesaggio: mi è sempre piaciuta quella parte del Friuli e mi piace ancora di più, dopo che hai confessato di averla trovata bellissima. Come faccio a non sorridere? Ti vedrò tra poco. Immagino che leggeremo il tuo oroscopo, ascolteremo musica, parleremo tantissimo e non vedo l’ora.
Non mi perdo, neppure a quell’incrocio bruttissimo. Non ho mai un dubbio, ed è strano, perché ho fatto quella strada solo una volta, in uno stato d’ansia atroce, seguendo passo passo le tue istruzioni e sbagliando un paio di volte (tutto sommato, un record). E sono calma, al di là della tristezza che mi assale a momenti.
Poi arrivo al tuo paese, entro nella tua via, ma non ci sono parcheggi. Guardo casa tua (o è l’altra?): chissà se ti affacci alla finestra, sentendo un motore. Chissà se mi hai già vista (eppure mi piacerebbe sorprenderti). Allora parcheggio sulla strada e poi entro. Mi fermo di fronte ad una porta. Dannazione a me, nata priva di memoria fotografica: di che colore è, la tua? Il campanello col nome mi salva -che suono squillante (perché non me l’aspettavo?). Apri poco dopo e sei sorpresa.
E’ una giornata di sole. E’ primavera.
Lo sarebbe stato comunque.

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Lo specchio ed il vestito dell’ImperatrOce

Vedimi, ma non guardarmi.
Sentimi, ma non aspettare di ascoltarmi.
Comprendimi, ti prego, senza che io debba spiegare nulla.
E penso all’estesa notte,
al più crudele dei giorni nel più crudele dei mesi.
E poi ai profumi che mi immagino,
a ogni pezzo di te che ho rubato. Sguardo dopo sguardo.
Alla voce nella mia testa che concordava
col rossore di una giovane studentessa coraggiosa.
E a quando mi chiesero di te e riuscii solo a dire che tu, tu avevi proprio un bel naso.

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Fuoco

Spento, molle, liquido.
Non tremo più, dopo tutto quel calore. Ho accumulato.
Spenta, liquida, molle.
Ho delle pozze in quegli occhi negli occhi (non riesco a staccarli). Molle, liquida e spenta.
Ho soltanto quasi amato. Mezzo cuore oltre il traguardo. Mozzo il fiato. Rincorsa finita.
Lo spettacolo è bellissimo: quando smette, per favore?

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Donna in età fertile

E’ quello che sono, in effetti: una donna in età fertile, pertanto la mia Regione pensa a me e a fare in modo che io possa figliare una progenie sana e forte. Difatti, arrivata a casa, è questa la lettera che trovo ad aspettarmi:

Sanità

Sanità

E mille pensieri mi hanno attraversato la mente, principalmente negativi. A non piacermi è stato il tono: il “si raccomanda” dovrebbe significare che questo è un consiglio. Magari accorato, ma che dovrebbe comunque lasciarmi la libertà di scelta. Peccato che le ultime righe prima dei contatti non facciano riferimento alla possibilità di rifiutare semplicemente il servizio, ma soltanto dell’eventuale mia difficoltà a presentarmi nel giorno fissato per -immagino- altri impegni. Indelicata, come minimo, definirei la maniera di esprimersi di chi ha  ideato questa comunicazione.
Sarà una bazzecola, o può essere percepito addirittura come offensivo il mio atteggiamento piccato, soprattutto di fronte a chi, altrove, in Italia, non ha questa -gratuita- possibilità: chi lo sa, forse esiste solo nella mia Regione (proverò ad informarmi); quasi sicuramente (non da metterci la mano sul fuoco, ma di solito queste cose funzionano così) non è pensata per un bel po’ di donne immigrate che potrebbero desiderare di usufruirne. Forse sembrerà che sputi su una cosa utilissima che magari fosse così ovunque! Eppure sento di alterarmi. Il tono, infatti, nasconde dell’altro, ossia il dare per scontato che, siccome sono una donna in età fertile e ho la possibilità di riprodurmi, io ne abbia anche l’intenzione. Come se fosse inconcepibile che il mio personale progetto di vita preveda che dalla mia vagina non escano infanti e che il mio endometrio si rinnovi mensilmente senza interruzioni di sorta regalandomi, fino alla menopausa, litri e litri di caldo mestruo. A me piace, il mestruo!
Si tratta, ripeto, di un servizio gratuito e pertanto finanziato dalle tasse di tutt*. Personalmente gradirei che i miei soldi, dato che non posso esimermi dal versarli, venissero spesi per altro. Per garantire l’aborto a tutte nelle strutture pubbliche, ad esempio. Per organizzare corsi di educazione sessuale nelle scuole. Per permettere alle donne di scegliere in maniera autonoma della propria vita riproduttiva, insomma, senza dare per scontato nulla. Poi, sì, che ci sia anche questo genere di prevenzione, per chi ha deciso di figliare. Ma dimenticarsi di quanto deve necessariamente venire a monte mi sembra tanto l’atteggiamento di un regime che desideri sani italici figli e basta.

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Per quanto umanamente possibile

Ecco che, all’improvviso, sento il sangue che scorre.
Ecco che, senza desiderarlo, qualcosa dentro me inizia a galoppare. Inizio ad urlare “Fermati!” e mi scopro, dopo poco, ad incitare quella corsa folle, a voler schiumare ancora, disperatamente, occhi fuori dalle orbite, priva di controllo.
Mi fa paura, allora tiro forte le briglie, le mie mani si coprono di vesciche, mi taglio fin sul vivo, mi lacero: metà di qua, metà di là.
Il mio pensiero è avanti anni luce, la mia volontà, ridotta ad un lumicino, tenta di riportarmi alla ragione, ma ho appena scoperto di essere umana.

Tutto quello che non ho mai voluto.

E’ così bello|otturb ìsoc ‘E

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(e)Spandere

Ho voglia di toccare, di toccarti. E’ che le mani sono vive, vibrano da sole e non trovano pace. E, può sembrare strano, ma sono loro che mi spingono a cantare a squarciagola in macchina, mentre ti aspetto. Qualcosa che mi fa ridere e mi rende felice.
Ho appannato tutti i vetri.
Da quando hai quel sorriso? Non me lo ricordavo…meglio così: mi piacciono queste sorprese.
Senti, non è che mi toccheresti un po’? Ho voglia che mi tocchi, mentre parli: il braccio, ad esempio. Per sbaglio, anche quando cammini, vienimi addosso.
E ridi ancora. Mi fai ridere ancora.

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Sperimento su di me

E’ notizia di pochi giorni fa (ieri o l’altroieri) che una ragazzina poco più che ventenne abbia ricevuto un sacco di auguri di morte da divers* naviganti del web a seguito della pubblicazione su un qualche social network di un suo video/post/commento in cui, brevemente, ringraziava la ricerca sugli animali per essere viva (si tratta infatti di una persona malata, attaccata ad un respiratore anche per una ventina di ore al giorno).

Partendo da qui, c’è stato un proliferare di commenti, iniziative (di dubbio valore) di sostegno tramite web, risposte, controrisposte, ricerca spasmodica di interviste e di qualsiasi cosa che potesse sollevare l’audience di un pubblico stordito dall’ingestione di troppe calorie e di grandi classici tipo “Una poltrona per due” che invadono di muffa la TV natalizia.
E, ovviamente, strumentalizzazione: immagino che buona parte del mondo scientifico non ne vedesse l’ora. Ma non vorrei parlare di questo. A me interessa parlare di cosa ci ho visto io, in questo putiferio, cercando di scartare, per quanto possibile, tutte le costruzioni che vi si sono installate sopra.

Caterina è giovane e malata. Praticamente un ossimoro, in una società dove “giovane” è sinonimo di attivo, bello, vivace, felice e, in parte, anche invincibile. Invece a lei è toccata la sfiga, come tocca a tant*, senza che questa si premuri di controllare certificati di nascita, passaporti o i conti in banca. La sua routine è fatta di medicinali e macchine e afferma, ad un certo punto, che senza la sperimentazione su altri individui, lei non sarebbe qui. E quindi è a favore del fatto che si continuino ad utilizzare questi metodi affinché lei e altr* nelle sue stesse (o simili, oppure anche diverse, ma ugualmente difficili) condizioni possano avere accesso alle possibilità di cui molt* dispongono in maniera molto più semplice e diretta. Questo -viene sottolineato- pur amando gli animali e studiando veterinaria proprio perché spinta da questo sentimento.

C’è da dire che il discorso è complesso e non mi stupisco più di tanto che le reazioni a ciò siano state molto forti (inappropriate, violente e deprecabili, spesso, purtroppo): a parte il fatto che sul web la gente dà volentieri il peggiò di sé, la situazione stessa è “forte”, come si può notare. E’ vero, infatti, che lei è viva grazie alla sperimentazione animale: non si può negare che le innovazioni nel campo della medicina si siano sviluppate su questo. Ma ciò basta per dichiararsi favorevoli allo sfruttamento e alla sofferenza?
No, non mi voglio immedesimare: non potrei neppure arrivare ad immaginare un dodicesimo della sua realtà, però posso cercare di analizzare cosa succede nel mio piccolo.

Ho fatto uso di medicinali (tento il più possibile di evitarli, attualmente), ho subito qualche operazione (dall’appendicite alle cure dentistiche), sono stata dalla ginecologa… Non posso negare che per me, affinché il mio benessere fosse preservato o ristabilito, molti individui abbiano sofferto. E, attenzione: non parlo solo di animali. Ogni categoria nel tempo considerata “inferiore” è stata sfruttata, e non sono la prima ad averci riflettuto su. E’ una questione di privilegio: io, bianca e occidentale posso considerare tutto il resto del mondo a mia disposizione. Me lo servono su un piatto d’argento, sia che si tratti della mia salute, che di un concetto più generale di benessere. Il cibo che mangio, gli sprechi che mi posso permettere, i vestiti che indosso, gli svaghi a cui posso attingere -foss’anche un semplice libro…ogni cosa può provenire dalla sofferenza e dallo sfruttamento: il caffé delle grandi piantagioni, la benzina per cui l’Occidente va ad “esportare democrazia”, la carta proveniente da boschi ormai scomparsi, il cellulare nato da dita agili e sottopagate…

Poiché lo spettro della coerenza è quello che viene più spesso sbandierato (sia come arma che come scudo) quando si intraprendono queste discussioni, non posso negare che gran parte delle cose che mi circondano portano con sé scie di dolore, ma questo non mi dà il diritto di alzare le spalle e dire “è così e, perciò, sono favorevole al fatto che continui ad essere così”.
E’ questa la falla che leggo nel can-can che si è scatenato: ammettere che qualcosa di positivo provenga da qualcos’altro che, invece, è negativo (e che come tale viene chiaramente percepito), non può significare sostenerlo e non fare niente per modificare la situazione. Non ci si può permettere, se ci si rende conto che qualcosa è sbagliato, di allargare le braccia con atteggiamento impotente perché le conseguenze “ci stanno bene”. Questa è pigrizia ed ipocrisia.

La sperimentazione animale E’ sbagliata. Prendere un individuo e lavorarci su a proprio piacimento (e, attenzione, non sto facendo alcun riferimento al “dolore”: paradossalmente è un elemento del tutto irrilevante) non dovrebbe essere mai un “(difficile) compromesso” per il raggiungimento di fini più alti. In qualche modo si tratta dello stesso errore di valutazione* commesso da chi ha affermato che la vita di Caterina (le cui opinioni, secondo alcuni aggiornamenti, sembrano essere in realtà meno “definitive”) valesse meno di quella delle cavie da laboratorio: vengono poste sul piatto della bilancia delle vite/vittime, col tentativo di individuare con chiarezza il “simbolo” (o fazione, se vogliamo) accanto a cui schierarsi a seconda di cosa ci vada meglio o di quale sia la nostra condizione, o il livello del nostro privilegio. Ci si dimentica, invece, che l’obiettivo non è questo, ma l’avvicinarsi il più possibile all’equa distribuzione di benessere per ogni individuo. Perché, se Caterina fosse stata non-occidentale o, molto più banalmente, povera, di lei non avremmo mai sentito parlare; il problema non si sarebbe posto neppure per chi, mosso da viscido pietismo, oggi è pront* a sacrificare con le proprie mani agnelli alla Divina Scienza affinché lei possa avere una vita dignitosa…

So che sembra un insieme di belle frasi, ma non sto parlando di utopie: nel mio discorso entrano la fatica dell’autoanalisi, la sofferenza della privazione (di molte comodità), le delusioni, gli errori e l’accettazione che certe cose non possono cambiare subito. Però iniziamo, almeno.

*si può definire “errore di valutazione” l’agurare la morte a qualcun*?

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Cose di questo Genere

Sottotitolo: Sbozzamenti di discussioni ancora crude.

Avvertenze:– Riporterò qui (i paragrafi in corsivo) parti di una discussione collettiva avuta sui miei dubbi.
– Sarà una cosa lunga.

Inizierò dal principio.
Un caro amico, poco tempo fa, mi ha indirizzata verso un sito di pornografia che apprezza tanto (questo) perché ci si possono trovare alcuni video deliziosi. Ovviamente il primo filmato che, una volta approdataci, scelgo di vedere sarà quello che poi mi farà sprofondare in un trip di dipendenza e ragionamenti per quasi una settimana, ossia:

Cupcakes!

Oltre al fatto che lo manderei in loop per anni, quasi dimenticandomi di mangiare (QUASI: confesso che, alla prima visione, mi sono domandata più volte che fine avessero fatto i dolcetti….), il vero problema è partito dai tags, dove spicca, ad un certo punto, la parola “transmasculine”.
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