Riassunto banale
A Taranto lo stabilimento siderurgico dell’Ilva inquina e dovrebbe essere chiuso. Ad oggi, mi pare sia stato deciso che l’azienda rimarrà attiva, ma sarà obbligata a mettersi in regola (…be’, gelato!!), in realtà, però, non c’è ancora nulla di deciso; prima della prospettata soluzione di tutta la vicenda gli operai che lì lavorano hanno protestato a lungo e con forza contro chi voleva far chiudere l’Ilva in quanto altamente inquinante e quindi pericolosa.
Fine del riassunto banale, inizio dello sfogo (altrettanto “basic”)
Non so esattamente da cosa iniziare, anche perché mi sembra che, alla fine, il discorso si possa concludere in maniera molto breve: vedere le proteste così accese degli operai mi ha sconvolta e mi ha dato, una volta ancora, la prova che viviamo in una società malata. Certo, è chiaro che queste persone lottavano per mantenere il proprio posto di lavoro: se l’azienda chiudesse, rimarrebbero a casa, con ridicole possibilità di trovare un nuovo impiego. Da un certo punto di vista la loro protesta è del tutto condivisibile, e comprensibile la loro paura. Dall’altra parte ho avuto l’angosciante ulteriore riprova che è a questo che ci porta la nostra società: a mettere da parte le cose realmente importanti e a dare valore a qualcosa che non ne ha mai avuto. Non ne sto facendo una questione di principi: non sono la Verità, la Giustizia e la Libertà che tiro in ballo, né l’amore ed il rispetto per il prossimo sotto forma di rispetto per l’ambiente che ci circonda, che pure sono valori di un certo peso. Parlo della vita: banale, scontata, biologica vita. Quella cosa che necessita di alcuni elementi piuttosto semplici per andare avanti tranquillamente: acqua, cibo e aria “puliti”.
Il detto “decidere di che morte morire” non è mai stato così reale per quegli operai: tra Carestia e Pestilenza, quale dei due mali è il minore o, molto più probabilmente, quale dei due si verificherà più in là nel tempo?
Tutti quegli operai siamo noi, costretti a non fare mai una reale scelta da una società che ci schiaccia sotto una serie di finte opzioni. Una parvenza di libertà, una catena mascherata da senso del dovere, responsabilità e tante altre belle parole che servono solo a rendere gli schiavi controllori di se stessi. Trovo in questa situazione nuove conferme alle mie idee sul lavoro inteso come prigionia e necessità fittizia, costruita a tavolino dai pochi sfruttatori dei piani alti.
Mi scuso se il mio sembra il discorso di un rappresentante di partito della neonata URSS, ma sto finendo di leggere Pasternak ed “Il Dottor Zivago” è ambientato in quei tempi…sono cose che capitano, quando si è immersi in un libro. Il fatto è che, però, come ho avuto modo di dire in altre sedi, penso davvero che il lavoro sia una forma di schiavitù in cui regaliamo ore di noi per alimentare una macchina che non può durare a lungo (e la crisi che stiamo vivendo ne è una riprova -sì, parlo da ottimista) se non ungendo i suoi ingranaggi con olio e sangue di altri schiavi. E’ una cosa detta e ripetuta mille volte lo so, lo so: perdono! Ho bisogno soltanto di mettere in ordine queste idee e dare un senso all’ansia che mi è salita seguendo parzialmente la vicenda Ilva.
Il fatto è che tutt* prima o poi siamo costrett* a lavorare, ma lo scopo di tanto darsi da fare non è realmente costruttivo: produciamo più di quanto necessitiamo e lo facciamo unicamente per il denaro (che ci permette di “comprare da vivere”, è chiaro, ma mi sto focalizzando proprio sul mezzo, ora) ossia per dare nuove spinte ad un circolo vizioso ed inutile in quanto inventato, non reale, perché i soldi si devono “muovere” per produrre altri soldi…
Per vivere servono, come detto sopra, acqua e cibo; dopodiché è necessario un riparo e, in quanto animali sociali, la possibilità di intessere relazioni. Questo indipendentemente dai modi in cui il cibo viene cucinato, da come le case vengono costruite e dal modo in cui facciamo amicizia che dipendono invece da fattori culturali e sociali. Ma l’importante è capire che tutto questo non è assolutamente collegato al denaro: cibo e denaro non hanno reali, “naturali” legami; la casa e gli amici esistono anche senza le banconote.
Non sto elogiando una vita “povera”: è che sono proprio al di fuori della logica di ricchezza e povertà. Mi sto immaginando un mondo senza economia e realizzo che, considerato che l’ambiente in cui viviamo ha sostenuto la nostra esistenza da ben prima che ci inventassimo la moneta, sarebbe possibile vivere senza. Sarebbe stato possibile, imboccando una strada diversa, un altro tipo di esistenza, insomma, dove il termine “lavoro” avrebbe assunto un significato più vicino al concetto di “attività pratica con un inizio ed una fine” (es: lavoro per costruirmi la casa, ossia preparo la malta, impilo i mattoni…fino a finire la casa. E, soprattutto, fino a finire il lavoro). Un’esistenza in cui non si sacrifica la propria vita in cambio di un mezzo che ci permetta di avere qualche sfogo nel fine settimana e qualche sfizio ogni tanto.
Lo so che sono una sognatrice perché parlo per teorie, mentre mi rendo conto che la parte pratica è difficile da realizzare: siamo in 7 miliardi su questo pianeta. 7 miliardi di persone che stanno crescendo (o diventando vecchie) entrando in contatto ed abituandosi all’idea di un determinato dipo di esistenza che si impone con la forza di un dogma. Non ho soluzioni per questa immensa complessità.
Però so cosa è giusto e cosa non lo è. Non è giusto, ad esempio, vedersi costrett* (o farlo con convinzione) a difendere un’azienda che contribuisce a mandare in rovina l’unica cosa realmente importante che abbiamo, l’unica vera fonte di sussistenza di cui disponiamo, solo perché questa ditta ci permette di avere un mezzo per comperare del cibo, mantenere una casa, far andare a scuola le/i nostr* bambin*. Come se quel denaro servisse a comperare altra terra ed altra acqua pulite.
Non è giusto essere convinti che il lavoro sia un diritto (lo diventa nel “qui ed ora”, ossia in questo momento storico, prima di riuscire a cambiare le cose), mentre il vero diritto è la Vita.
Non è giusto essere pronti a lottare per la possibilità di sprecare 8 e più ore al giorno facendo qualcosa che è del tutto indifferente se piace o no per anni eterni.
Chiudo qui, perché ho finito le parole e provo solo stanchezza e quell’amarezza che mio stesso nome si porta dietro.