Oggi, da qualche parte, venivano ricordati i reduci friulani della battaglia di Nikolaevka, dove (anche) le truppe italiane, male armate e male equipaggiate in generale, risucirono a sfondare l’accerchiamento effettuato dall’Armata Rossa durante una delle fasi della campagna di Russia. Questo in breve: non sono mai stata ferrata sulle battaglie e le cose di guerra (sempre troppo confuse, nella mia testa).
Al TG si intervistavano alcuni anziani sopravvissuti ad un’azione bellica che è rimasta nell’immaginazione di tutt* come un tentativo suicida, inutile sacrificio di “nostri” giovani per il puro piacere onanistico di Mussolini.
La cosa che mi colpisce è il sottofondo di orgoglio e stima profonda verso questi anziani che emerge nelle parole dei commentatori, mentre io provo solo pena. Non le conosco, quelle pesone: non so in cosa credessero, né so che cosa pensino ora, poiché i minuti riservati a questo tema dal giornalismo sono veramente pochi e non dedicati ad un’indagine che si muova in tale direzione. Posso solo immaginare (e neppure avvicinandomi molto) che cosa debbano aver vissuto durante la lotta contro il Generale Inverno, probabilmente costretti ad una guerra di cui neppure conoscevano i motivi o gli scopi. Questo fa nascere in me un forte sentimento di pena: gente buttata in mezzo al nulla e alla crudeltà, per uccidere o essere uccisi, a volte salvati da azioni di pietà da parte dalle stesse persone il cui territorio avevano invaso, a volte addormentatisi per sempre nel gelo, senza neppure rendersene conto…
Eppure, come dicevo, il ricordo di una cosa così terribile si mescola non tanto alla tristezza, quanto ad una sorta di orgoglio: quelli erano uomini valorosi, espressione della nostra Patria; e i sopravvissuto sono anziani a cui va portato rispetto per aver dimostrato la forza di resistere anche in quelle condizioni. E penso che sia tutto sbagliato, perché la conclusione a cui una riflessione su quegli eventi dovrebbe portare è che la guerra è inumana. Non c’è nulla di valoroso, nulla che meriti rispetto nella guerra, perché un evento in cui chi decide le mosse è bene al sicuro e non risponde mai delle conseguenze delle proprie azioni non è altro che un gioco e un gioco in cui la posta è formata da vite di milioni, migliaia, centinaia o anche solo dieci individui non solo non è divertente, ma è condannabile senza “se” né “ma”.
Mi domando perché non si arrivi mai ad affermare ciò. Mi domando perché i reduci o veterani che siano vengano celebrati, invece di essere presi come esempio di come non debbano assolutamente andare le cose. Mai più.
La costruzione del mito della Patria e dei suoi Eroi si fonda anche sulla distorsione di questa prospettiva, distorsione che serve a creare nuovi emuli pronti a sacrificarsi in nome di un’illusione. La risposta ai miei perplessi “perché” sta tutta lì: il sentimeto di un popolo deve essere piegato e deviato dalle sue naturali* conclusioni (lo schifo che io provo, ad esempio) per permettere la sopravvivenza del concetto stesso di “popolo” (che, no, non è una parola affatto inclusiva, ma che serve piuttosto da scudo da tutto ciò che non è “popolo”, ossia l’altro -e penso a quante culture abbiano, nel tempo, denominato se stesse, nella propria lingua “i veri uomini” in contrapposizione a coloro che non facevano parte del proprio gruppo).
E di fronte a queste consapevolezze mi sento stanca.
E banale, come questa breve esposizione del mio pensiero.
*Ora che ho scritto questa parola, non sono più tanto sicura che si tratti di “natura”. Non so se è “normale” che io provi schifo, o che altr* non lo provino e credano invece alla guerra. Però è anche vero che io voglio credere, invece, che sia più normale provare orrore per determinate cose, piuttosto che trarne sentimenti positivi e piacevoli (o, al limte, dolceamari).