Halloween’s soooo sexy!

Va bene, Halloween, così come ci viene proposta di questi tempi, è una festa puramente commerciale importata dai Paesi anglosassoni e in Italia esistono sicuramente tradizioni molto più interessanti e ritualità molto più stuzzicanti da poter osservare, di quelle che fanno prudere l’ombelico dal modo in cui parlano ad una serie di immaginari comuni (siamo qui riuniti attorno a questo tavolo per evocare Jung ed i suoi archetipi…).
Però non voglio parlare di questo, anche perché, personalmente, Halloween mi piace. Provo simpatia per i carnevali di ogni periodo: per quanto inquinate dal commercio, le feste in maschera dove “tutto è permesso” mi fanno impazzire ed il loro collegamento col culto dei morti mescolato alla risata (liberatoria, panica, apotropaica -e altri aggettivi interessanti a caso) mi titilla le sinapsi.

Quindi, Halloween, dicevo, mi piace. Però c’è qualcosa che mi disturba nel modo in cui viene proposto. In particolare, mi riferisco ai costumi: nei negozi dovrebbero fiorire maschere di mostri, zombie, vampiri, cadaveri, scheletri, lupimannari… Ed in effetti è così, ma a questa allegra compagnia si aggiungono spesso e volentieri: la sexy-zombie, la sexy-vampira, la sexy-strega, la sexy-diavolessa, la sexy-che-so-io… Ogni “versione femminile” della mostruosità in realtà non punta allo spaventoso, bensì all’erotico.

A parte il fastidio enorme nel vedere come ogni cosa riferita a noi donne in questa società debba finire per rappresentarci o come mamme o come corpi-con-cui-fare-sesso, provo un senso di disorientamento e sconcerto dovuto al pensiero che questo genere di feste dovevano rappresetare, originariamente, dei momenti di passaggio. Non a caso si tratta di festività invernali o prossime al solstizio. Semplificando, in momenti come questi dove la comunità si trovava nel punto più critico dell’anno (freddo=poco cibo), ci si rivolgeva a forze superiori che avrebbero garantito la sopravvivenza di tutt* nonostante le difficoltà. I morti erano i più facilmente raggiungibili, in quanto partecipi, un tempo, della vita del villaggio/paese che ora si rivolgeva loro. Nacque anche l’idea che in questi particolari momenti dell’anno il velo tra aldilà e aldiqua si assottigliasse e che quindi i defunti potessero far visita ai vivi e i vivi, se non prestavano attenzione, potevano finire in luoghi a cui non erano ancora destinati. Un ribaltamento, questo, che ha generato prima la tradizione “costumistica” (per confondersi tra i morti e permettere loro di girare tranquillamente tra “noi vivi”), dopodiché quella scherzosa (i morti, se non adeguatamente rabboniti, possono fare dispetti) e, infine, quella della completa libertà dal ruolo sociale imposto: in un momento in cui persino la morte era sconfitta, la classe sociale si rivelava un ben misero ostacolo; il più povero poteva essere un re, i potenti erano liberamente sbeffeggiabili e così via…*

Detto ciò, io che sono così affascinata da queste tradizioni “di ribaltamento”, come potrei accettare di buon grado di vederci anche adesso relegate a ruoli stereotipati, invece di poterci ribellare alla nostra condizione di donne costrette alla bellezza? Almeno per un giorno!** Non era “a Carnevale ogni scherzo vale?” E per Halloween sarà lo stesso, no?
No, a quanto pare. E i risultati sono in bilico tra il ridicolo ed il deprimente, come la sexy Pellegrina (e per fortuna che erano puritani!) o la sexy Teletubbie-girl (Tinki Winki dice “Gnam!”…sigh) e via dicendo… Guardatevi tutto il sito Fuck No Sexist Halloween Costumes, perché merita. In particolare quello che colpisce è il contrasto tra costumi che da una parte (maschile) sono spesso ridicoli, mentre sul versante femminile si perde tutta la vena scherzosa. Lo stesso vale per lo spaventoso… Persino la posa delle modelle e dei modelli è diversa. Fastidiosamente diversa.
Giusto perché non riesco a smettere di guardare, citerei questa immagine perché è favolosamente emblematica: un mestiere a cui accedono sia donne che uomini viene totalmente stravolto nelle due versioni (cappello a parte, sembra un completo da cuoca, quello?). E, per finire, un Power Ranger, dove però i creatori della maschera si sono dimenticati che nel gruppo donne e uomini avevano lo stesso identico costume… Di nuovo: ridicolo e deprimente.

Per fortuna che poi sono capitata su questo video che mi spiega che posso essere qualsiasi cosa:

Perciò alla fine la sottoscritta sarà una perfetta ragazza “Trash-anni-’80 rivisitato a muzzo” con (dal basso verso l’alto):

– scarponcini taglio maschile
– calzetti a righe azzurre
– jeans risvoltati per far vedere i calzetti
– mezzo guanto sinistro ricavato da un vecchio calzetto viola
– t-shirt nera con scritta rosa “Stupida sgualdrina viziata”
– camicia di flanella a quadri appartenuta a mio nonno (così i “miei morti” saranno con me)
– spille sulla camicia di vario genere: “Sticks and stones may break my bones, but chains and whips excite me”; “You say I’m a bitch like it’s a bad thing”; immaginine di donne che si baciano…
– catename vario al collo
– capelli con coda in cima alla testa per l’effetto cotonato
– cappello i jeans

Nemmeno una tetta fuori. Neppure finta!

E, giusto per fare riflettere un attimo, dopo toni così frivoli:

http://www.youtube.com/watch?v=MFn81_HAvWg&feature=player_embedded

Perché tutt* veniamo educat* ad essere “la cosa giusta” (per chi, poi?) sin da piccol*, ma sarebbe più importante che ci venisse permesso di essere “la cosa che ci piace”.

 

* E’ stato il riassunto più ardito che io abbia mai fatto… Probabilmente ho persino esagerato e perciò mi scuso: era per dipingere un quadro abbastanza chiaro, ma con poche pennellate…

** Be’, chiaramente di un giorno solo non me ne fo nulla: io lotto per tutta una vita senza ruoli e stereotipi, ma, evidentemente, questa società considera pericoloso anche quell’unico “rubello dì” su 365.

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Pappati l’acido folico, donna!

L’altro giorno ero in macchina ed ascoltavo la radio. Di solito la pubblicità mi passa da un orecchio all’altro senza lasciare particolari strascichi nel mezzo, però una in particolare ha attirato la mia attenzione: la voce di una -credo ex- conduttrice televisiva si rivolgeva a tutte le donne incinte in uno spot di sensibilizzazione alla prevenzione della spina bifida. L’argomento è importante e delicato e tutto il resto: la spina bifida è una brutta bestia, da quel poco che so, perciò una campagna informativa non può che essere accolta positivamente, se non che…

A quanto ho capito dalla pubblicità, un corretto apporto di acido folico diminuisce la possibilità che il bambino nasca con questo problema. Perfetto. Solo che la soluzione proposta alle donne è quella di assumere quotidianamente una pillola (ovviamente accompagnata da una sana alimentazione che preveda grandi consumi di frutta e verdura). Ricordo di essermi sentita molto stranita e anche inquietata: l’offerta di una pasticchetta (per quanto relativamente innocua, perché l’acido folico è una vitamina), fortemente suggerita dalla ricerca, così come si evince dallo spot, mi ha richiamato alla mente due cose diverse: innanzitutto, l’estrema medicalizzazione del corpo femminile, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti riproduttivi e, secondariamente (ma strettamente legata al primo punto), un pensiero fascista e mai passato di moda quale “Le madri devono fornire alla Patria dei figli sani”. E’ vero: tendo ad essere paranoica, però il ricorso alle due grandi divinità Scienza e Medicina quando si tratta del nostro corpo ha spesso uno scopo ben preciso che raramente vede come obiettivo il benessere delle madri, se non in maniera incidentale, quanto, piuttosto, quello del loro “prodotto”.

Ora, abbastanza incuriosita e molto insospettita dal richiamo ad una corretta alimentazione che prediliga il verdurame vario (perché, poi, se c’è una pillola che risolve tutto?), ho fatto una microscopica ricerca e qui ho trovato:

L’acido folico è presente nelle frattaglie (rene, fegato), come folati nelle verdure a foglia verde (lattuga, spinaci, broccoli), nei legumi e nelle uova. La sua presenza è scarsa nella frutta e nel latte. Parte dell’acido folico (circa il 50% o anche più) si può perdere durante la cottura in quanto termolabile. In alcuni alimenti possono esistere delle sostanze inibitrici della pteroilpoliglutammato idrolasi, od altre ancora non conosciute, in grado di diminuire l’assorbimento di acido folico.

E anche (parlando della dose giornaliera consigliata):

Spesso queste dosi raccomandate non sono raggiunte dalle popolazioni per una scarsa propensione alle diete vegetariane, per l’assunzione di cibi conservati e per i metodi di cottura.

Altrove, leggo:

Si trova soprattutto nel fegato ma anche nei legumi, specialmente lenticchie, ceci, soia, arachidi, fagioli, fave e piselli. Ne sono però ricchi anche i cereali integrali come riso, avena, mais e germe di grano. Si trova anche nelle verdure a foglia verde scuro come spinaci e bietole, broccoli e cavolfiore, indivia, lattuga, asparagi. Nella frutta si trova soprattutto nel melone, nell’avocado, nella banana e nell’arancia.

E allora i miei sospetti erano fondati, mi dico: se qualcuno segue un’alimentazione sana e non fatta di schifezze, il ricorso agli integratori non dovrebbe più risultare necessario…
Ecco, è questo che mi fa veramente incazzare: si interessano a noi solo quando dobbiamo produrre dei soldati alla patria e ci costringono a giocare secondo le loro regole, innanzitutto, ingabbiandoci in una morsa di paura (ché sulle donne incinte la tecnica del “se non fai attenzione, chissà che mostro sputerai fuori” ha assai presa) e, secondariamente, fornendoci false soluzioni che ci rendano dipendenti da loro, poiché, per esempio, le pasticchette io non me le so fare e se mi dicono che solo quelle sono utili, allora dovrò per forza usare solo quelle.
Ben venga l’informazione, ma che sia completa! Che mi si parli (in questo caso) di quanto schifo facciano i cibi precotti o di quanto male faccia gonfiarsi di carne a sua volta pompata di merda varia (tralascio per ora gli aspetti etici della questione), che mi si suggeriscano dei metodi che non prevedano che io diventi succube di aziende che lucrano su di me e sui miei bisogni…che mi vengano date delle soluzioni reali, se mi parlate di un problema, e non il surrogato in pillola della felicità.
E che cazzo!

Nota dovuta: personalmente sono contraria alla riproduzione umana. Il mio progetto a riguardo è di non figliare per tutta una serie di motivazioni, tra cui la principale risulta essere “siamo in troppi sulla Terra” Poi è chiaro che ognun* fa le proprie scelte, ed è a questo punto che dovrebbe intervenire il diritto ad un’informazione corretta, che comprenda anche la libertà di decidere cosa fare e come farlo, senza ritrovarsi poi ridott* a cosumatrice/ore sulla cui esistenza tutti finiscono per guadagnarci tranne la/il dirett* interessat*. Mi pare il minimo.

 

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Tempesta

Attorno alla valle dove abito è tutto un fremere di lampi; fulmini cadono dal cielo, in lontananza, e illuminano le nuvole scure che si accavallano, mentre sopra casa mia vedo le costellazioni dell’autunno, limpide come quando inizia a far freddo: ancora il cerchio di minacciose nubi non si è stretto, ma sento scorrere dentro di me quell’elettricità che si fa brividi e calore a circa due dita dall’ombelico, salendo.
E’ uno di “quei giorni”: complici gli ormoni e la lettura di un piacevolissimo libro, nel mio cuore sciaborda placido uno strano miscuglio di sentimenti. E’ uno di “quei giorni di Amore Universale”: io sorrido ebete, pronta a dirmi innamorata di tutto. Di solito, però, è come un fluire costante che mi lascia ipnotizzata e sospirante. Questa sera, invece, c’è da qualche parte un forte temporale -lo vedo e lo sento- e l’acqua che alberga nelle profondità del cielo richiama l’acqua che custodisco nel segreto tepore di ogni mia cellula: il mare che sono (mare, Amara, Amaromare, Amarame, Amaramore…) inizia ad agitarsi, non più cheta marea, ma plumbea tempesta. Vorticano ora dietro i miei occhi immagini, sorrisi, ricordi che percepisco sulla pelle più che nella mente. Sorrido ancora, sorrido sempre, perché è l’unica reazione sana di fronte all’ Amore Universale, solo un po’ più selvatica: come i denti di una Lupa, no…no, ho sbagliato. Come le unghie dell’Orsa, ammesso che gli orsi si ritrovino mai ad alzare le proprie zampe verso la luna piena e ululare, o qualsiasi verso riescano a produrre…
Sono nel mezzo, dentro e attorno a tutto questo, che non è altro che un mistero bellissimo e terribile, che un essere umano non potrebbe sopportare troppo a lungo. Io sono tutte quelle onde furiose che mi sommergono, lasciandomi in una beata estasi. Ti penso, in tutto questo.

Ti penso, e sei mille cose e persone.

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Squillo: giocare ad essere sfruttatori

Qualche settimana fa mi viene suggerito di andarmi a fare grasse risate con questo lancio pubblicitario: Squillo: official spot. Lo guardo dal primo all’ultimo minuto, in un crescendo di disagio.
Ho sempre provato sentimenti ambivalenti nei confronti di Immanuel Casto: anche quando non ero “politicizzata”, le sue canzoni, pur divertenti per il loro essere dissacrante, mi disturbavano (onestamente sottolineo che non l’ho mai veramente perdonato per uno “sporche mestruazioni” buttato a caso in una strofa solo perché stava in metrica): non era la volgarità, ma la violenza con cui certi concetti venivano espressi. Però, mi dicevo, in fondo si tratta di una sorta di satira e critica alla società bigotta e cattofascista: va bene, no? Insomma, se è così… Ma fino a che livelli può spingersi la satira? Che cosa è accettabile e cosa no? Oppure, più banalmente, cos’è la satira?
“Squillo” è un gioco di carte in cui si impersona un magnaccia che decide come gestire le “proprie” prostitute e può scegliere anche di ucciderle per venderne gli organi. A seguito di un’interrogazione parlamentare che chiede di ritirare dal commercio questo gioco, il Casto Divo incita i propri fan ad attuare una mail bombing; nel testo proposto dal cantante si legge:

Squillo è un gioco di satira che si muove su di un piano di finzione. Non a caso sono state scelte delle illustrazioni. Il che non significa minimamente dare un’approvazione morale ai contenuti del gioco (ammesso che un gioco davvero necessiti di un approvazione morale). Ma fare una parodia di una società grottesca dove la mercificazione del corpo femminile raggiunge il suo apice in prodotti di massa come i cinepanettoni e fa di argomenti come la prostituzione o scandali sessuali la principale forma di intrattenimento giornalistico.

Ora, non credo nella censura. Spesso, anzi, questo genere di cose comporta una reazione inversa, favorendo la diffusione di quanto si tenta di nascondere: è molto meglio, invece, diffondere cultura e, piuttosto, mostrare proprio ciò che si vorrebbe censurare, accompagnandolo da riflessioni sul perché si ritiene che la tal cosa sia pericolosa. Ecco, ad esempio io penso che questo gioco non solo non sia divertente (ma questa è una mera questione di gusti), ma sia profondamente diseducativo nel momento in cui si va ad inserire in un contesto delicato come quello giovanile (ché spesso i fan di Casto sono proprio degli adolescenti, a dispetto del suo essere un esponente di “adult music”) senza una vera spiegazione. Quelle carte, buttate così sui tavoli di ragazze e ragazzi, sono prive di “spessore”: non percepisco nessuna volontà reale di critica, non riesco a vedere la parodia o l’intento “educativo” (non trovo altri termini, sebbene mi renda conto che parlare di “educazione” è forse un po’ esagerato, ma spero di essere compresa). Senza una spiegazione, una voce che accompagni questo gioco e ne esponga gli intenti critici, ogni valore “politico” che sembra voler trasparire dalle parole di Immanuel Casto è azzerato.
Ecco, se si fosse trattato di un gioco in cui donne e uomini, rappresentati dai/lle giocatori/rici, si mettevano sul mercato decidendo autonomamente come vendersi (ossia, se si fosse trattato di prostituzione scelta e non imposta), quel mazzo di carte avrebbe potuto suscitare qualche curiosità in me, perché avrebbe posto l’argomento “prostituzione” sotto una nuova luce, con la potenzialità di risvegliare riflessioni sul diritto ad usare liberamente il proprio corpo senza pudori o divieti cattolici e fascisti. Ma, in una società dove misoginia e sessismo la fanno da padroni, suggerire alla gente che può essere divertente sfruttare i corpi di altre donne anche solo per finta, lo trovo aberrante. E’ proprio perché non viene proposto niente di diverso a quanto esiste in realtà e quindi non avviene nessun ribaltamento che spinga a riflettere che trovo che parlare di satira sia solo una scusa un bel po’ stiracchiata per giustificare una poderosa “caduta di stile” (concedendo che il Casto artista ne fosse in possesso, prima). E mi infastidisce che chi sta cercando di arrampicarsi sugli specchi si riempia la bocca di argomenti quali “la mercificazione del corpo femminile”.

E’ vero, nel testo della mail si legge anche un paragone sui giochi di guerra e di come non si discuta negli stessi termini sulla loro “eticità”. Si tratta di un problema che mi sono posta anche io diverse volte: io che la guerra vera la aborro, non disdegno qualche partita a “Risiko”, per fare un esempio. Eppure nel giocare a spartirmi il mondo non provo disagio. In fondo le persone non compaiono mai sul tabellone; non ci sono popolazioni da sterminare e sfruttare, ma solo una lotta “tra pari” dove gli stessi giocatori, ossia le parti vermente in causa, non sono altro che un insieme di carrarmati di plastica colorati: non è la loro individualità a scendere in campo e ad essere distrutta; l’idendificazione con il grande generale o con un esercito intero non è richiesta, né sentita particolarmente da chi sta giocando… Certo, così non si risolve la contraddizione tra “guerra sì” e “prostituzione no”, ma sicuramente spiega bene il mio disagio e la sensazione che da ora in poi, Immanuel Casto non mi farà più ridere.

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L’ho fatto ancora. (Era: “Rendersi conto”) – Abbozzata

Ieri sera ho visto una cosa di me che forse avevo già notato, ma che non mi era mai capitato di analizzare seriamente o di vedere in tutta la sua chiarezza: voglio spaventare chi mi conosce. Prima di affezionarmi troppo, prima che un eventuale abbandono possa devastarmi, io metto in pratica una sorta di test. Non parlo di qualcosa di studiato, ovviamente: è semplicemente un bisogno che mi nasce dentro, una spinta verso l’onestà senza confini che mi porta a confessare i miei pensieri/comportamenti più inquietanti. E’ un po’ come preparare il terreno, o un avvertimento: se andrai oltre a questo limite (“affettivo”?), ti troverai ciò che già conosci e dei lati che invece non amo mostrare perché considero problematici anche se (spero) con limature -se non soluzioni- in corso d’opera. Perciò prendo e parto in bomba, senza pietà, con un rigore chirurgico che non lascia spazio né all’esaltazione del difetto né al piangersi addosso. Apro semplicemente le porte e lascio che si veda tutto, tento di spiegare minuziosamente ogni ombra e lo faccio perché ho paura che queste, quando sarà il tempo di emergere (ché tutto viene a galla), siano troppo spaventose o, appunto, provochino una delusione troppo forte. E non potrei sopportare il momento in cui mi si potrebbero dire cose come “Credevo fossi diversa” o “Mi ero sbagliat* sul tuo conto”. Non potrei davvero, allora metto le mani avanti dimostrando che è possibile ricredersi presto su di me, anzi, è meglio farlo subito.
E se dopo tutto ciò sei ancora lì che mi ascolti, allora, forse, io posso lasciarmi andare un po’ di più…

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Feminist Blog Camp #2

Perdonate la brevità, ma vorrei giusto dirvi che vi amo e terminare qui il mio proclama politico.

E poi lo so che dovrei ringraziare almeno una cinquantina di persone, ma mi limiterò solo ad alcune…

Menzioni speciali:
– Drew e Rho che hanno tentato di uccidermi con la stessa tecnica in due momenti diversi. Quando si dice “affinità intellettuale”.
– Feminoska che mi ha reso pan per focaccia, vendicandosi della mia mancata presentazione dell’anno scorso andandosene via senza salutarmi.
– Lafra con cui non ho limonato ovviamente solo a causa del pranzo a base di cipolla con contorno di panzanella (buuuuna che era!!!!).
– La FikaSicula che sconvolsi con la pacata ammissione dei miei sogni perversi.
– Jo perché è troppo Jo e io le vogggliobbene.
– Fotosintesi per la condivisione delle scene trash.
– Serbilla che ho incontrato per la prima voltaaaaaa!
– Vivi, a cui mi appresto a linkare ogni cosa esistente su YouTube riguardante la “mia” Regina Spektor.

E poi niente…mi pare di aver già scritto da qualche parte un “vi amo”, no?

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Perché sono diventata vegetariana?

Il punto di domanda è più che voluto, dato che questa riflessione non rappresenta la descrizione del mio viaggio verso la “meta” Vegetarianesimo, ma l’esposizione di una serie di riflessioni ancora in corso e che, per il momento, mi hanno portata a fare questa scelta. Una decisione che è stata, in realtà, piuttosto tarda: è solamente da Dicembre 2011 che “pratico la via”, con l’addio definitivo alla carne sotto le festività del Natale, poiché non potevo sopportare di smettere di mangiare quella prelibatezza senza salutare almeno il salmone affumicato, alimento che risveglia in me istinti ursidi profondamente radicati nella coscienza dell’animale-totem che mi porto sul groppone (che io sia un’orsa è evidente e la mia provenienza geografico-culturale -Friuli- ne è solamente in parte responsabile).
Ho spiegato a tutti che volevo provare a vedere se per il mio corpo la carne era veramente indispensabile, se avrei patito, se mi sarei pentita, se avrei restitito. Un esperimento, insomma. Però, per quanto vera, era la spiegazione più facile e più tranquillizzante per coloro i quali mi stavano attorno: come spiega Jonathan S. Foer in Se niente importa… il cibo non è solo carboidrati e proteine, ma cultura, una cultura che ci colpisce molto meno in testa e molto più profondamente, pertanto è difficile da razionalizzare ed ogni minaccia ad essa è vissuta come una minaccia alla persona che la sente come propria. Ok, magari Foer non l’ha detto esattamente così, ma, maldestramente traducendo, è come l’ho capita io. La verità è che avevo già iniziato a pensare.

Una donna che porto nel cuore era (e immagino lo sia ancora) vegana ed antispecista. Che io ricordi, era la prima volta che venivo in contatto con questa realtà. Sì, dei vegani avevo già letto qualcosa, ma non ne comprendevo le ragioni né avevo mai approfondito l’argomento, mentre l’antispecismo era un topic totalmente nuovo. Il contatto con una persona che potesse rispondere alle mie domande e chiarirmi i dubbi mi ha aiutata a vedere il mondo da un’atra prospettiva (tra l’altro, che pazienza: immagino di non essermi rivelata particolarmente originale con lei e di aver sfoderato, pur senza desiderio di polemica e colma di curiosità, ogni tipo di “obiezione” e ragionamento dei carnivori; sì, insomma, di quelli che si trovano anche sulle Veg*-FAQ…). E così ora sapevo meglio cos’erano il veganesimo e l’antispecismo e in che modo si collegavano nella vita di quella persona.
Da lì iniziai la mia serie di private riflessioni. Lo scoglio più grande era sicuramente l’antispecismo, un concetto realmente difficile da accettare: vivendo in campagna, provenendo da una famiglia che alleva galline, conigli e che ogni anno macella il maiale, non ci vedevo niente di strano nel mangiare gli animali. Alla fine era tutto un concetto di responsabilità: di certo sapevo che la fettina non nasceva dal polistirolo del supermercato e che quello, prima, era un animale vivo, ma, pensavo, se il singolo prendeva atto di essere causa della morte di un essere vivente, se rifletteva seriamente su questa cosa, allora avrebbe dato un senso al sacrificio che l’animale aveva “compiuto” (anche se “subìto” era chiaramente il termine più adatto). Mangiare carne senza rendersene conto era per me il solo abominio e infatti inorridivo di fronte a chi, a sua volta, inorridiva nel vedere la bistecca mentre era ancora attaccata alla carcassa da cui proveniva: l’ipocrisia che così si manifestava nel carnivoro che si bendava gli occhi era per me rivoltante. Neppure da piccola la morte degli animali era un reale problema: finita la fase-cucciolo, terminava anche il mio interesse nei confronti di galline e conigli ed ero parzialmente cosciente del collegamento che c’era tra il pulcino ed il pollo che mia nonna mi cucinava. Inoltre, nel giorno prestabilito, chiedevo a mia mamma che mi svegliasse presto, cosìcché potessi vedere come veniva ucciso il maiale che mio nonno aveva portato a casa la sera prima. Sentivo che era una cosa che dovevo vedere; mi incuriosiva il funzionamento della pistola a proiettile captivo. So di aver chiesto, forse la prima volta, se l’animale soffrisse ed ero stata rassicurata a riguardo. Effettivamente non ricordo scene strazianti e, finito quel breve momento, mi avviavo a piedi verso la scuola elementare.
Forse è una leggenda che i bambini sono attratti dagli animali e li amano. Forse sono io che sono strana ma, a parte quel periodo dell’infanzia che non lascia memorie nella mente di chi la vive e che mi è stato riportato dalle cronache famigliari, ricordo di aver sempre avuto abbastanza paura (o ribrezzo) per tutto ciò che non erano (i miei) cani e gatti: le lucertole mi facevano schifo assieme ai ramarri, gli insetti mi terrorizzavano, gli uccelli mi angosciavano con i loro movimenti imprevedibili…e la situazione non è variata di molto. Le lucertole le sopporto solo da un metro, i ramarri e gli altri rettili, invece, unicamente dal secondo piano di una casa. Convivere con i piccioni di Venezia è stato un trauma (e infatti S. Marco non era mai una meta da raggiungere di giorno) e non entro in un pollaio da quando avevo 3 anni, credo, perché i gallinacei mi pietrificano da quando una gallina mi ha beccata per sbaglio mentre aspettavo che prendesse il mais dalle mie mani. Per non parlare delle mie fughe di fronte a farfalle (sì, farfalle), grilli, cavallette e, le peggiori di tutte, mantidi religiose (mi vengono i brividi solo ad immaginarle). Perisino le formiche, se superano la decina, rischiano di sconvolgermi lo stomaco. Degli anfibi non voglio parlare. Coi pesci, fortunatamente, non ho contatti; i paguri al mare mi agitano; gli altri mammiferi sono troppo grandi o veloci o ignoti per farmi sentire a mio agio… Insomma, se fossi una divinità, probabilmente non avrei creato la Terra, ma solo un pallone di plastica per giocare a calcio, considerato che a volte sento di non amare neppure gli umani. Se non altro, di antispecista c’è che non faccio distinzioni…
Insomma, il succo era che non sono mai stata particolarmente portata a provare amore per gli animali e la loro morte affinché potessi mangiarli non era qualcosa che mi sconvolgeva, ma, anzi, era una realtà che, andando avanti con l’età, accettavo come responsabilità personale (pur non provando sentimenti nei loro confronti, sapevo che una vita restava una vita e come tale aveva un valore che doveva esserle riconosciuto).
Col tempo questa riflessione sulla responsabilità è ovviamente progredita e mi sono resa conto che non c’era molta coerenza in ciò che professavo: certo, se fossi riuscita ad uccidere io quella vita, allora avrei potuto parlare realmente di responsabilità, ma farlo per interposta persona, tramite i macelli o i miei nonni o mio padre…rendeva il tutto chiaramente più facile. Ma io sarei stata in grado di uccidere? Era chiaro che non ce la potevo fare. Anche le cavallette rappresentavano per me un problema: pur schifandole ed impazzendo se me ne entrava una in casa, avere il dubbio che il colpo di ciabatta che assestavo non fosse sufficiente a farle fuori immediatamente e senza dolore non mi lasciava pace. Ingrandendo la stazza dell’animale, si ingigantiva anche il dubbio e quindi la mia “immaginata” (perché, contrariamente agli insetti, non mi sono mai trovata di fronte un pollo da ammazzare o un maiale, ad esempio) capacità di porre fine alla vita di un individuo si dimostrava inesistente.

Parallelamente a questo genere di riflessioni, ho iniziato ad informarmi sui metodi di allevamento. Sicuramente la sofferenza a cui erano costretti gli animali all’interno di quegli speciali lager si collegava col discorso di poco sopra, ma a colpirmi maggiormente erano degli elementi che non avevo mai considerato prima: inquinamento e sfruttamento delle risorse. Scoprire che allevare animali era una pesante fonte di inquinamento mi ha lasciata a bocca aperta, ma ancora di più mi aveva sconcertata il rendermi conto che la “produzione della carne” (espressione che mi fa in realtà immaginare una persona che impasta il pane, piuttosto che la morte e macellazione di altri esseri viventi) richiedeva quantità di acqua e cibo che invece avrebbero potuto essere utilizzati per sfamare molte più persone di -per dire- una mucca alla fine del processo di nascita-crescita-morte-macellazione. A sua volta questo discorso si univa alla mia visione del mondo che aveva già da un po’ iniziato a fondarsi sulla critica al sistema capitalista il cui scopo era (è) sfruttare una grande massa di gente inerme e costretta letteralmente a morire di fame per garantire la propria sopravvivenza e l’agiatezza di una numericamente misera fetta di popolazione mondiale.

Credo che, in realtà, sia stata quest’ultima scoperta a far pendere definitivamente l’ago della bilancia dalla parte del vegetarianesimo, ma è chiaro che senza tutto quello che è stato spiegato prima (e che è venuto anche, cronologicamente parlando, precedentemente) non sarei mai approdata ad una scelta di questo genere. Decisione che, ribadisco, non è “definitiva”: so di dover aggiustare ancora parecchio e di entrare ancora completamente nella mentalità. Ad esempio mi viene ancora naturale, a volte, pensare che potrei assaggiare quella fetta di prosciutto che è in tavola, prima di rendermi conto che il prosciutto è un prodotto animale. Oppure so di aver mangiato, per il primo periodo, pane contenente strutto perché non mi rendevo conto di dover controllare bene l’etichetta anche di quello. Nel frattempo, inoltre, ho comprato delle scarpe fatte di pelle…insomma, tutta una serie di azioni “abitudinarie”, causate spesso dalla mia distrazione e altre volte dalla mia ignoranza. Non solo: mi rendo conto che escludere la carne è solo un piccolo passo, perché sofferenza, inquinamento e sfruttamento delle risorse sono strettamente legate anche alla produzione di latte, formaggi e uova (sul miele non mi sono ancora fatta un’idea chiara, confesso); sto pertando riducendo anche il consumi di questi prodotti, cercando di virare verso il vegan. Per ora non posso dirmi decisa a riguardo, perché è un passo ancora troppo grande, per me e tutte le mie rivoluzioni nascono da un’attenta riflessione e presa di coscienza senza sbavature. Non posso permettermi di essere titubante, altrimenti, lo so, mi concederei troppe eccezioni (il modo in cui riesco ad essere estremamente feroce e, contemporaneamente, abbondantemente benevola nei miei confronti mi stupisce), senza contare che devo combattere contro una serie di peccati capitali che causerebbero il mio smembramento immediato una volta all’inferno, data l’indecisione che provocherei in Minosse [citazione colta, olè]:

– gola: il latte e i latticini mi fanno impazzire; non a livelli del salmone, ma la Cleopatra che ha affittato la mia anima a volte mi spinge a produrre spinti sogni di fontane di latte dove immergermi. Le uova non arrivano a tanto, ma uno zabaione cremoso, piuttosto che un ovetto alla Bismark mi strizzano le ghiandole salivari

– lussuria: dove li mettiamo i “giochini con la panna”?

– accidia: la fatica di dover solo pensare ad un menù che sostituisca 7 giorni su 7 uova e formaggi e che sia, contemporaneamente, vario dal punto di vista proteico (tenendo conto che non mangio soia) mi devasta

….

Parlando seriamente, considerato che, ne sono sicura, esiste una soluzione per ciascuna delle obiezioni sollevate scherzosamente qui sopra, il veganesimo può dirsi il passo successivo a quello che ho appena intrapreso, ma ancora non sono pronta.
Perciò, insomma, nel frattempo queste sono le mie idee. Perchè sono vegetariana? Una certa dose di antispecismo (anche se non posso considerarmi una vera antispecista, né un’amante degli animali: sono concetti che, per il modo in cui sono cresciuta, pur capendoli “in teoria” fatico ancora a comprendere -nel senso di “prendere con me” e quindi fare miei), una punta di coerenza (pur con i miei umani limiti) e questioni politiche. Per ora basta, no?

Ah, e, no, non mi è ancora capitato di sentire la mancanza della carne: nessun raptus, nessun occhio iniettato di sangue… Alcuni profumi mi fanno venire l’acquolina in bocca, lo ammetto, ma quel desiderio violento che, quando ancora le mangiavo, mi prendeva a volte per le bistecche al sangue non si è ripresentato, per il momento, né per le fiorentine, né per le sorelle o cugine di altre specie…

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Videogiocando

Ieri leggo questa cosa simpatica: nel prossimo capitolo della serie di uno dei videogiochi più famosi del mondo, la protagonista, Lara Croft, verrà stuprata. C’è chi dice che sarà solo un tentativo finito male per gli aggressori, chi, invece, che l’atto verrà portato a termine, con tanto di gemiti della protagonista. Cosa posso dire a riguardo? I pensieri mi si accavallano e ribollono nella mia testa conditi da un bel po’ di rabbia e senso di…umiliazione in quanto donna e in quanto videogiocatrice, seppure scarsa: ovviamente la riproposizione dello stupro a puri scopi commerciali (dato che questa cosa fa parte delle prime voci pre-lancio, cioè quelle che devono ingolosire il possibile acquirente) è rivoltante di per sé, ma lo diventa maggiormente se poi questa prospettiva, invece di indignare chi ne viene a conoscenza, viene accolta con sfregamenti di mani e acquolina in bocca. Non c’è che dire: il “maltrattamento” (trattasi di eufemismo) di quella che dovrebbe essere il proprio alter-ego o, almeno, un personaggio amato e rispettato dal grande pubblico, piace. Peccato che questo ragionamento fili bene quando si tratta di personaggi femminili, ma non riesco a ritrovare un parallelo maschile. Eroi che si devono riprendere da un’esperienza paragonabile mancano. Penso a Dante (di Dante’s Inferno: mollato dopo 10 minuti per la violenza del tutto gratuita del gioco ed un protagonista incapace di suscitare un minimo di simpatia e desiderio di farlo sopravvivere…) che subisce l’umiliazione di vedersi “rubare” la donna a causa dei suoi stessi peccati. Che poi perché Beatrice deve pagare per le merdate che ha commesso lui in Terra Santa? Non l’ho mai capito (altro motivo per cui il gioco faceva cagare)…
Poi? Chi altro potrebbe esserci? Non ricordo nessuno, davvero nessun videogioco con protagonista maschile a cui venga fatta una cosa del genere.
E invece a Lara, l’eroina che ha dimostrato di non dover invidiare neppure per sbaglio Indiana Jones, deve capitare per soddisfare le voglie di “porno di sguincio” degli adolescenti brufolosi che alla cultura patriarcale devono essere educati. Perché di questo si tratta, alla fine. Una donna, seppur virtuale, deve “stare attenta”. Va bene, è chiaro che Lara è un’eroina pensata per un pubblico maschile ed eterosessuale: il suo seno, pur nato da una svirgolata del mouse, non è stato corretto ed è diventato leggenda e gli stessi gemiti che l’esploratrice emetteva quando moriva trafitta dalle trappole puntute erano neppure troppo velatamente orgasmici. Però è anche vero che, dopo tutti questi anni, pareva essersi guadagnata il rispetto dei videogiocatori onanisici (casualmente, come accade ad ogni donna sul suo posto di lavoro…). E invece sembra di no, mancava ancora qualcosa a dare un po’ di “pepe”. Perché non immaginare qualcosa di originale? Una trama ancora più avvincente? Una cosa nuova? …ecco, cosa ci può essere di più nuovo dell’arma che il patriarcato usa da millenni sulle donne? Evidentemente ce n’è di strada da fare anche nel mondo dei videogames.
Che sconforto…

E poi, invece, mi capita di incrociare Fable II. In breve, un RPG in cui sviluppi il tuo personaggio (femmina o maschio) facendole/gli acquisire abilità tramite varie missioni e portando avanti una trama. La caratteristica principale della famiglia Fable è che chi gioca si trova quasi costantemente di fronte ad una serie di scelte che modificheranno il carattere del personaggio sulle vie della Malvagità-Bontà e Corruzione-Purezza. Nulla è obbligatorio, se non la volontà di chi sta maneggiando il joy-pad. Lo stesso mondo da esplorare, oltre che meravigliosamente disegnato, è piuttosto libero: gli ostacoli si saltano e le pianure attendono solo di essere percorse.
La cosa che mi piace di più, però, è il mondo delle relazioni umane di quell’universo: indipendentemente dal sesso del personaggio, è possibile sposarsi o fare sesso con qualunque adulto (ed in qualsiasi numero: una mia amica era la “regina della poligamia” in questo videogame), purché consenziente. Eh, sì, perché non è detto che i caratteri siano compatibili e l’amat* potrebbe quindi sottrarsi al corteggiamento; oppure potrebbe avere un orientamento diverso dal tuo (omo/etero) e quindi rifiutare “a prescindere” ogni attenzione. Esiste anche la prostituzione, ovviamente legale e presentata in maniera normale e assolutamente non “viziosa”. Ovviamente, in un mondo così libero, nessun aspetto deve essere sottovalutato: se il personaggio vuole darsi alla pazza gioia, deve prendere in considerazione i pro e i contro; senza preservativo, infatti, si rischiano gravidanze e/o malattie veneree. Ebbene sì: ecco che, in un mondo fantasy dominato dalla magia, esistono i preservativi e, anzi, sono facilissimi da reperire e caldamente consigliati. L’unica nota negativa è che non esistono protezioni dalle malattie in caso di sesso tra donne (tra uomini non lo so, confesso: i personaggi maschili da giocare per me non hanno grandissima attrattiva).
Sempre a proposito di omosessualità, esiste una missione secondaria in cui è necessario far incontrare l’anima gemella al figlio di un fattore che lo vorrebbe vedere sposato. Il ragazzo è gay, ma il padre l’ignora. La scelta del/la protagonista è se presentargli o meno una persona dello stesso sesso. La decisione positiva, ovviamente, è quella di permettere al giovane di conoscere un altro ragazzo, invece di costringerlo al matrimonio con una ragazza. Alla fine, quindi, il figlio del fattore farà coming-out con la famglia e la reazione del padre sarà (sorprendentemente per l’ambientazione) di completa accettazione. Una scena che, confesso, mi ha commossa (anche se non vale, perché io piango per tutto).
Infine, cito l’ultimo messaggio positivo che questo videogioco lancia: per recuperare l’energia il personaggio può dormire, oppure mangiare. Il cibo offre anche la possibilità di aumentare qualche altro paramentro personale e acquisire esperienza utile per migliorare la propria tecnica di combattimento. Ebbene, accade che, durante le schermate di passaggio da un luogo all’altro, appaiano dei suggerimenti per godersi appieno il gioco, informazioni non reperibili da nessuna parte e, a volte, semplici frasi proferite dagli abitanti di quel mondo che servono unicamente a far ridere l’utente. Ed ecco che arrivo al dunque: una delle frasi-spiegazione che compaiono dice “Mangiare frutta e verdura non è solo salutare, ma anche etico, in quanto nessun essere vivente è stato utilizzato per la preparazione del tuo pasto”. Infatti sedani, carote, mele e compagnia bella fanno dimagrire, curano la salute e aumentano la santità del personaggio.
Se non è una bella cosa da vedere in un videogioco questa, non saprei cosa prentedere di più.
Certo, Fable è a volte colpito da bug veramente sciocchi, ma la qualità non ne viene realmente inficiata. E poi, in tutta onestà, qualche sfarfallio o i personaggi secondari che cambiano voce sono veramente poca cosa di fronte alla sensazione di benessere che si prova dentro un mondo (purtroppo virtuale) che non ha bisogno dell’umiliazione di nessuno per essere goduto pienamente.

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E, una volta finito, tirate lo sciacquone.

 [post scritto di getto e con una carica di nervoso e saturazione paragonabile all’elettricità di una razza]

Eccomi reduce da una tre giorni durissima di navigazione del web. A provarmi è stato, in particolare, un blog sui cui -a memoria- non ero mai capitata e, per la precisione, questo post: Le insegne luminose attirano gli allocchi. Leggetevelo bene e godetevelo, perché merita. Parlando di me, le reazioni sono state (dalla più superficiale a quella più profonda): grasse risate, incredulità, perplessità e turbamento. Insomma: sono partita con un “Siamo su una candid camera?” per approdare a “Ma quello che hanno scritto e il modo in cui l’hanno fatto era consapevole? E se lo era, perché hanno pubblicato una cosa del genere?”.
E’ chiaro che la tesi complottista, dal mio punto di vista, non merita neppure mezza riflessione, non tanto perché non sia possibile, ma perché è buttata giù in maniera così ridicolmente ingenua che pare di vedere un collage che spera di restare in piedi con la forza del solo sputo. Sottolineo comunque che non ho idea di cosa sia Otpor, perciò, ok, questa è ignoranza mia, e delle cose che non so non posso permettermi di parlare: insomma, tutto può essere. In ogni caso è pacifico che se di complotto si tratta, il tutto ci sarà svelato tra qualche anno; per il momento a me resta solo la perplessa curiosità di capire se una lotta vada sostenuta anche se è pubblicizzata da Repubica o qualche altro giornalaccio (tra l’altro “pubblicizzata” è un parolone, dato che la stampa italiana s’è concentrata intensamente sui risvolti più succulenti: tette, figa, culo, Playboy)…ma vabbe’, avevo detto che su questo punto non mettevo bocca.
Quello che mi ha realmente colpita è stato l’uso del linguaggio. Che l’autore/trice del post volesse sminure un gesto che si presentava al pubblico come protesta era chiaro e “giustificabile” (se non altro ai fini di rafforzare la propria tesi), ma che abbia scelto di farlo puntando sugli stessi argomenti di Libero mi ha stupita, soprattutto osservando la direzione da cui questa “critica” proveniva, ossia da un ambiente che, se non proprio “fraterno” avrei definito “tendenzialmente affine”. Ne è uscita una pappa moralista e bigotta, dove il nome stesso del gruppo veniva tradotto e storpiato in italiano con fini di chiaro dileggio “a sfondo sessuale”. I commenti, poi, hanno fatto emergere il meglio: c’è persino chi si stupisce, dopo 300 interventi, del perché “Le Femministe” -questa entità astratta e onnipresente sul web con velleità chiaramente censorie- si siano inalberate per l’offesa a “quattro sfigate la cui protesta neppure aveva fini dichiaratamente femministi” (citazione molto approssimativa nella forma, ma non nel succo).

…3…2…1…respiiiira….

Forse il concetto non è chiaro: il mostro con la testa di Medusa che ess* chiamano “Le Femministe” si sono incazzate non per la scalfitura di un idolo intoccabile, ma
1) per il mancato supporto a vittime di repressione (ma a ‘sto punto tutto è soggettivo, perciò se loro credono che si tratti di “Le spie che ci provavano”, è anche comprensibile che tale partecipazione emotiva manchi;
2) cosa più importante, per il linguaggio utilizzato nell’articolo e nei commenti stessi che ha fatto emergere un mare nascosto (ma anche no) di maschilismo in un ambiente in cui si sperava che l’antisessismo fosse un dato di fatto. La realtà è che così non è e neppure ci eravamo illus* più di tanto, (anzi, è un argomento spinoso e difficile da trattare nel “nostro ambiente” proprio per la profondità con cui il sessismo è radicato) ma almeno ora le carte sono in tavola, checché l’arrampicata sugli specchi successiva tenti di fare dei distinguo tra femminismo e antisessismo, ficcandoci dento la priorità della lotta di classe (ignorando -volutamente? Perché a me il dubbio viene- che la sopraffazione di un genere sull’altro avviene in maniera trasversale alle classi sociali). E qui la bile mi ribolle nel gargarozzo: come prima cosa perché la questione della classifica di importanza delle lotte non si può sentire e (c’è bisogno sul serio di farlo notare?) è unicamente un tentativo puerile di distogliere l’attenzione da un argomento che non si è capaci di affrontare. E’ così banale capire che un essere umano, per quanto multi-tasking, può parlare di solo una cosa alla volta? Dopodiché, esaurito l’argomento, si passa ad altro, che è “altro” non per importanza (last, but not the least…), ma perché è capitato semplicemente dopo nel discorso. La seconda cosa urticante è la castronata per cui si confonde il femminismo col contrario del maschilismo; almeno questa si evince essere la conclusione a cui, dopo attenta riflessione (suppongo), quelli di Militant sono giunti: non mi spiego altrimenti la necessità di fare quella distinzione. E io che pensavo che il femminismo lottasse per la parità (a vari livelli) tra i sessi. E non è antisessismo quello? La relazione, perciò, non è da considerarsi biunivoca?

Insomma, sono tre giorni che mi tocca camminare nelle feci di chi ne ha fatta tanta che straborda ed ha lasciato il cesso in quelle condizioni senza tentare neppure di dare una pulita e tirare l’acqua (leggasi: fare una seria riflessione ed autocritica), perciò avevo bisogno di sfogarmi. Adesso c’ho la nausea e vado a dormire.

SBAM (chiusura brusca)

Pubblicato in Femminismo, Riflessioni non troppo brillanti | Commenti disabilitati su E, una volta finito, tirate lo sciacquone.

Lavorare per vivere/Vivere per lavorare

Riassunto banale
A Taranto lo stabilimento siderurgico dell’Ilva inquina e dovrebbe essere chiuso. Ad oggi, mi pare sia stato deciso che l’azienda rimarrà attiva, ma sarà obbligata a mettersi in regola (…be’, gelato!!), in realtà, però, non c’è ancora nulla di deciso; prima della prospettata soluzione di tutta la vicenda gli operai che lì lavorano hanno protestato a lungo e con forza contro chi voleva far chiudere l’Ilva in quanto altamente inquinante e quindi pericolosa.

Fine del riassunto banale, inizio dello sfogo (altrettanto “basic”)
Non so esattamente da cosa iniziare, anche perché mi sembra che, alla fine, il discorso si possa concludere in maniera molto breve: vedere le proteste così accese degli operai mi ha sconvolta e mi ha dato, una volta ancora, la prova che viviamo in una società malata. Certo, è chiaro che queste persone lottavano per mantenere il proprio posto di lavoro: se l’azienda chiudesse, rimarrebbero a casa, con ridicole possibilità di trovare un nuovo impiego. Da un certo punto di vista la loro protesta è del tutto condivisibile, e comprensibile la loro paura. Dall’altra parte ho avuto l’angosciante ulteriore riprova che è a questo che ci porta la nostra società: a mettere da parte le cose realmente importanti e a dare valore a qualcosa che non ne ha mai avuto. Non ne sto facendo una questione di principi: non sono la Verità, la Giustizia e la Libertà che tiro in ballo, né l’amore ed il rispetto per il prossimo sotto forma di rispetto per l’ambiente che ci circonda, che pure sono valori di un certo peso. Parlo della vita: banale, scontata, biologica vita. Quella cosa che necessita di alcuni elementi piuttosto semplici per andare avanti tranquillamente: acqua, cibo e aria “puliti”.
Il detto “decidere di che morte morire” non è mai stato così reale per quegli operai: tra Carestia e Pestilenza, quale dei due mali è il minore o, molto più probabilmente, quale dei due si verificherà più in là nel tempo?

Tutti quegli operai siamo noi, costretti a non fare mai una reale scelta da una società che ci schiaccia sotto una serie di finte opzioni. Una parvenza di libertà, una catena mascherata da senso del dovere, responsabilità e tante altre belle parole che servono solo a rendere gli schiavi controllori di se stessi. Trovo in questa situazione nuove conferme alle mie idee sul lavoro inteso come prigionia e necessità fittizia, costruita a tavolino dai pochi sfruttatori dei piani alti.
Mi scuso se il mio sembra il discorso di un rappresentante di partito della neonata URSS, ma sto finendo di leggere Pasternak ed “Il Dottor Zivago” è ambientato in quei tempi…sono cose che capitano, quando si è immersi in un libro. Il fatto è che, però, come ho avuto modo di dire in altre sedi, penso davvero che il lavoro sia una forma di schiavitù in cui regaliamo ore di noi per alimentare una macchina che non può durare a lungo (e la crisi che stiamo vivendo ne è una riprova -sì, parlo da ottimista) se non ungendo i suoi ingranaggi con olio e sangue di altri schiavi. E’ una cosa detta e ripetuta mille volte lo so, lo so: perdono! Ho bisogno soltanto di mettere in ordine queste idee e dare un senso all’ansia che mi è salita seguendo parzialmente la vicenda Ilva.
Il fatto è che tutt* prima o poi siamo costrett* a lavorare, ma lo scopo di tanto darsi da fare non è realmente costruttivo: produciamo più di quanto necessitiamo e lo facciamo unicamente per il denaro (che ci permette di “comprare da vivere”, è chiaro, ma mi sto focalizzando proprio sul mezzo, ora) ossia per dare nuove spinte ad un circolo vizioso ed inutile in quanto inventato, non reale, perché i soldi si devono “muovere” per produrre altri soldi…
Per vivere servono, come detto sopra, acqua e cibo; dopodiché è necessario un riparo e, in quanto animali sociali, la possibilità di intessere relazioni. Questo indipendentemente dai modi in cui il cibo viene cucinato, da come le case vengono costruite e dal modo in cui facciamo amicizia che dipendono invece da fattori culturali e sociali. Ma l’importante è capire che tutto questo non è assolutamente collegato al denaro: cibo e denaro non hanno reali, “naturali” legami; la casa e gli amici esistono anche senza le banconote.
Non sto elogiando una vita “povera”: è che sono proprio al di fuori della logica di ricchezza e povertà. Mi sto immaginando un mondo senza economia e realizzo che, considerato che l’ambiente in cui viviamo ha sostenuto la nostra esistenza da ben prima che ci inventassimo la moneta, sarebbe possibile vivere senza. Sarebbe stato possibile, imboccando una strada diversa, un altro tipo di esistenza, insomma, dove il termine “lavoro” avrebbe assunto un significato più vicino al concetto di “attività pratica con un inizio ed una fine” (es: lavoro per costruirmi la casa, ossia preparo la malta, impilo i mattoni…fino a finire la casa. E, soprattutto, fino a finire il lavoro). Un’esistenza in cui non si sacrifica la propria vita in cambio di un mezzo che ci permetta di avere qualche sfogo nel fine settimana e qualche sfizio ogni tanto.

Lo so che sono una sognatrice perché parlo per teorie, mentre mi rendo conto che la parte pratica è difficile da realizzare: siamo in 7 miliardi su questo pianeta. 7 miliardi di persone che stanno crescendo (o diventando vecchie) entrando in contatto ed abituandosi all’idea di un determinato dipo di esistenza che si impone con la forza di un dogma. Non ho soluzioni per questa immensa complessità.
Però so cosa è giusto e cosa non lo è. Non è giusto, ad esempio, vedersi costrett* (o farlo con convinzione) a difendere un’azienda che contribuisce a mandare in rovina l’unica cosa realmente importante che abbiamo, l’unica vera fonte di sussistenza di cui disponiamo, solo perché questa ditta ci permette di avere un mezzo per comperare del cibo, mantenere una casa, far andare a scuola le/i nostr* bambin*. Come se quel denaro servisse a comperare altra terra ed altra acqua pulite.
Non è giusto essere convinti che il lavoro sia un diritto (lo diventa nel “qui ed ora”, ossia in questo momento storico, prima di riuscire a cambiare le cose), mentre il vero diritto è la Vita.
Non è giusto essere pronti a lottare per la possibilità di sprecare 8 e più ore al giorno facendo qualcosa che è del tutto indifferente se piace o no per anni eterni.

Chiudo qui, perché ho finito le parole e provo solo stanchezza e quell’amarezza che mio stesso nome si porta dietro.

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