L’epica nel dna

Ho appena finito di leggere l’ Iliade.
Lo dico con un’aria stranita, come se si trattasse, in realtà, di una frase che ho bisogno di ascoltare per crederci, perché è un po’ una cosa che persino a me sembra buffa. La gente a cui lo dico, di solito, ride, ma, se ci penso proprio bene, la verità è che si trattava un’idea che mi girava per la mente da tanto tempo: la parafrasi alle medie e alle superiori è sempre stata così piacevolmente rilassante, per me che amo tanto le parole, da lasciare un ricordo quasi dolce sia dell’epica omerica che di Dante. Sono sicura che prima o poi leggerò anche la Divina commedia, infatti: attendo soltanto una piccola spinta, la scintilla della consapevolezza che i tempi sono maturi.
Per l’Iliade questa è stata rappresentata da Cassandra di C. Wolf che è stata in grado di lasciarmi con un senso di orfananza persino maggiore rispetto alla media dei libri che finisco ed è strano, perché non credevo che sarei andata oltre alla prima pagina. E poi, invece, eccomi a trovare la chiave di lettura, il giusto ritmo, i passi per muovermi attraverso la mente del personaggio come fosse la mia. L’autrice mi ha fatta innamorare per l’ennesima volta nella mia vita di qualcuno che non conosco: di lei e della protagonista. Lei, un genio. Cassandra, una donna forte e fragile, così vera e consapevole da farmi desiderare di essere come lei. Ovviamente sapevo come andava a finire la storia, perché le narrazioni delle gesta di Achille, della scelta di Paride, della forza di Ettore e di tutti gli altri mi sono familiari. Il mito greco non dico che non abbia segreti per me, ma mi affascina per tutta una serie di motivazioni che sarebbe troppo lungo spiegare ora, perciò ne ho letto un bel po’, ma è stata una sorpresa vederlo da un’altra prospettiva. Ad esempio “Achille la bestia”: quando quest’espressione ritornava nel testo, quasi rabbrividivo. E pensare che “da piccola” tifavo per lui, un caro bravo ragazzo, in fondo, destinato ad una vita breve ma gloriosa e ad una morte veramente idiota. Viva i Greci, abbasso i Troiani che avevano il torto di stare dalla parte di uno sciocco che aveva scelto l’amore di una donna solo perché bella, come se questo bastasse. E poi è inutile: la scelta migliore sarebbe stata la sapienza (sì, io avrei optato per Era. Spero che Atena ed Afrodite non me ne vogliano, ma era la cosa più logica da fare: l’intelligenza ti renderà in grado di sviluppare un’ottima tattica di guerra, oltre ad essere una qualità apprezzabilissima, tale da farti avere almeno qualche chance con una donna affascinante…).

Dicevo: viva i Greci e viva lo sfortunato e tenero Achille! E, invece, eccolo lì: un affamato di guerra, distruttore e vile. Dovevo saperne di più. Così, finito Cassandra, ho voluto prendere in mano l’opera dalla quale tutto aveva avuto inizio. A parte la mia sorpresa nel rendermi conto che della stessa veggente non c’era praticamente ombra e del fatto che il racconto si chiude con la morte di Ettore (niente cavallo, niente frecce nei talloni…), ciò che mi ha più stupita è stato il mio atteggiamento o, meglio, la mia percezione del racconto. Era come starsene seduti sulla vetta di una montagna e guardare il panorama, scorgendo città, seguendo il corso dei fiumi dalla foce fino al mare, percorrendo con lo sguardo ogni strada, collina, avvallamento, imprimendosi nella mente l’esatto aspetto del luogo in cui si vive. Solo che quello che vedevo non era un paesaggio: era la “mia” cultura. Durante tutto il racconto ho continuato a percepire con piena consapevolezza le basi del mondo (“occidentale”, è questo che intendo) in cui vivo. Il culto della forza, l’onore, la ricchezza, la conquista, la morte violenta esaltata in quanto sacrificio per la patria.

Ho letto l’Iliade e l’ho trovata ridicola.
Il canto dell’ira di Achille non è altro che la favola sulla puerile lamentela dell’eroe stizzito perché perdente nella contesa con Agamennone. E qual era la posta in gioco? La sua schiava preferita, Briseide, che, per come viene trattata potrebbe persino permettersi di non avere un nome: ninnolo, decorazione che aggiunge valore solo a chi la possiede. E così ogni donna: madre, moglie o schiava che sia: una medaglia da appuntare al petto del combattente. Persino lo stupro delle donne (prima appartenenti ai vinti) è una cosa cosa così naturale e pacifica da diventare un placido “dormire nel letto”.
Lo so che sono cose che tutti sanno o dovrebbero sapere e mi rendo conto anche di essere banale a criticare un’opera di millemila anni orsono: nessun Omero si farà un’analisi di coscienza dopo le mie parole. Il mio scopo non è questo, in effetti: come ho detto, attraverso la narrazione epica sono riuscita a osservare la cultura a cui appartengo. E’ a questa che rivolgo la mia critica, perché è evidente che tutti i valori a cui fa rifermento sono rimasti praticamente immutati da secoli. E’ tutto questo insieme che merita la definizione di “ridicolo”: non so se è merito di Wolf che mi ha aperto gli occhi e la mente fornendomi altri punti di vista, però è vero che ho immediatamente pensato che tutti dovrebbero affrontare questo classico e rappotarlo al modo in cui viviamo. I “bisticci” per il possesso di una schiava sono cosa totalmente estranea alla nostra società? Forse l’esaltazione del caduto “per la patria” è avvenimento raro ai nostri giorni? Alla fine del libro ci si rende conto che abbiamo appena finito di guardarci allo specchio ed il riflesso che questo rimandava era solo un imperatore in mutande.

Stupido è l’attaccamento ad un paese natìo, infantile il desiderio di vittoria sul nemico, ridicolo (di nuovo questo aggettivo, sì: chiedo scusa per le ripetizioni) il tentativo di coprire i propri interessi con valori ed ideali, al fine di renderli più belli ed accettabili.
Leggetela, l’Iliade e fatela leggere: è vero che le grandi opere hanno sempre qualcosa da insegnare. A volte, però, è qualcosa di diverso da quello che ti aspetteresti.

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