La vera verità è che sono di lacrima facile. Non so per quale motivo, ma ricordo che è iniziato tutto d’un colpo: all’improvviso, qualche anno fa, mi resi conto che non potevo ascoltare neppure le patetiche musiche di sottofondo ai servizi del TG. In realtà succedeva un po’ con tutto: era come se le mie emozioni si fossero improvvisamente amplificate e bastasse veramente poco -qualche scemenza, sul serio- per scatenare un terremoto dentro di me. Rabbia oltre i livelli di guardia, occhi che esplodevano nel tentativo di trattenere i flutti che vi premevano dietro, languore infinito dopo una dose di morfinico amore. Ovviamente ho fatto di tutto per controllarmi, perché le emozioni “live” sono uno dei miei ostacoli più grandi: non mi sento in grado di gestirle e, tendenzialmente, mi terrorizzano. Meglio un pianto a dirotto sotto le coperte o delle chiacchiere “a viso aperto” davanti allo specchio, muto confidente e utilissimo strumento che permette ad una sempre viva e razionalissima parte di me di studiare le mie espressioni mentre vengo travolta dalle emozioni (non ho mai capito esattamente come sia nata questa scissione che ha dato origine alla “piccola ricercatrice” dentro di me, né se sia una cosa poi tanto grave avere qualcuno nel proprio cervello che si appunta l’esatta sequenza di muscoli che si attivano durante un sorriso, o uno sguardo trasognato…).
In pubblico, invece, il tutto è sempre taciuto. Be’, è chiaro che sono un essere umano e quindi sicuramente delle emozioni le esprimo, ma sicuramente non si tratta mai della reale intensità provata. Provo spessissimo il desiderio di abbracciare qualcuno, per il puro desiderio di farlo, di esprimere vicinanza, o affetto, o supporto, o qualsiasi cosa voglia dire un abbraccio. E’ raro che lo faccia, comunque. E, ad esempio, non so mai se, incontrando una persona che non vedo da tanto tempo, io debba baciarla sulle guance o no. A volte lo vorrei, ma non lo faccio, perché non capisco se ci sono regole a riguardo. Di nuovo, però, non voglio sembrare (e sembrarmi) una sorta di automa. E’ solo che ho serie difficoltà ad esprimermi. Forse sono più brava con le parole scritte, o almeno mi piace crederlo, per salvare almeno un po’ le apparenze. Di sicuro spesso mi trovo, dal vivo, senza sapere quali siano le parole o azioni più appropriate. L’immagine che mi viene in mente è quella di un fiume di significati ed emozioni che mi si accavalla dietro i denti, parole che si intralciano a vicenda senza essere in grado di farsi strada verso la luce. E allora resto zitta e annuisco e spero solo che dall’altra parte ci si accorga che quel fiume, pur se sotterraneo, esiste.
Ma è chiaro che tutte queste emozioni, poi, devono trovare uno sfogo. E allora mi sorprendo come questa mattina a piangere, commossa, sul servizio della nazionale italiana di calcio che è passata in semifinale agli euopoei. Insomma: a me piace il calcio, mi piace proprio vederlo giocare…però così è esagerato.
Oppure mi ritrovo a fare sogni, come quello di questa notte, a seguito una giornata veramente piacevole, trascorsa in un luogo che mi regalava le sensazioni di “casa”…
Eravamo io e lei, in una cittadina medievale con però molti elementi steampunk (oppure, semplicemente incoerenti). Il periodo “storico” era molto particolare ed agitato: c’erano un sacco di guardie a protezione di una dittatura in fermento; in particolare si cercava un bambino che si diceva avesse il potere di rovesciare questo governo ingiusto. Noi due (ma non eravamo le sole) lavoravamo per fare il modo che la “profezia” si avverasse; mentre io agivo nell’ombra, lei era più esposta, infatti la polizia conosceva il suo aspetto, tanto da costringerla a girare, in quell’occasione, vestita da suora spagnola (non so che cosa ne indicasse la provenienza, dato che l’abito monacale era quello tipico -nero e bianco- che si incrocia in ogni parte del mondo; però io sapevo che era spagnola…valli a capire, i sogni!). Siamo nella piazza del paese e giriamo sforzandoci di sembrare interessate alla merce esposta sulle bancarelle in un giorno di grande mercato. Guardiamo, tocchiamo e, nel mentre, osserviamo i gendarmi che si aggirano tra la folla: c’è qualcosa che li agita. Nell’aria si percepisce l’elettricità tipica dell’attesa.
Mentre rovisto tra i giornali e i documenti “antichi” (o d’antiquariato?) esposti su un banchetto, estraggo proprio una foto di lei, vestita da suora, per giunta e, poco sotto, una taglia in piena regola. La compro senza pensarci su e mi affretto a nasconderla anche ai suoi occhi: non vorrei turbarla. Spero, intanto, che le guardie lì presenti non abbiano mai visto quell’immagine, o la riconoscerebbero subito.
E poi, all’improvviso, ecco che succede ciò che stavamo aspettando: in fondo alla piazza compare il bambino, come dal nulla. E’ alto (o forse, data l’età -10 anni circa- sarebbe meglio definirlo “lungo”), moro coi capelli corti e spettinati, e vestito alla buona. Senza aspettare oltre, si mette a correre e, poco dietro di lui, compare una sorta di suo alter-ego, ma in ombra, come se rappresentasse la sua parte cattiva. Era chiaro che il doppio “nero” non doveva vincere la corsa (una gara-danza che prevedeva di raggiungere una statua al centro della piazza). E’ il nostro momento: corriamo anche noi, intrecciando i nostri percorsi cercando di coprire quello del bambino, diretto verso l’immagine di quello che sembra un cinghiale enorme in pietra. Attorno a noi c’è il caos più totale. Forse qualcuno tenta di colpirci con armi a distanza, ma niente ci tocca. Ricorda un po’ un rituale e un po’ una musica in cui il tema principale è rappresentato dai “due” bambini, mentre noi siamo la melodia che riprende il discorso centrale.
Non ho ricordi riguardanti il momento finale della gara, perché la scena si sposta di qualche tempo in avanti. Io e lei siamo in viaggio e discutiamo di come le cose stiano cambiando. Effettivamente ho l’impressione che la dittatura non ci sia più, però rimango colpita -e non troppo positivamente- dalla velocità del passaggio dalla vita medievale alla città moderna che si sta verificando. In un certo senso, era come se il tempo, prima bloccato da una sorta di diga invisibile, avesse preso a scorrere inevitabilmente troppo veloce. E’ un po’ quello che tenta di spiegarmi lei, con un senso di accettazione forse dato dall’età maggiore della mia, seppur di poco. Non posso obiettare: alzo le spalle e continuo a camminare. Alla fine arriviamo ai giorni nostri, in un cortile che ricorda quello dove abita mia nonna. Lì c’è la sua macchina e so che dovremo salutarci, probabilmente per sempre. Il nostro lavoro è finito e non c’è più nulla da fare, insieme. Non voglio; inizia a prendermi molto male al pensiero di quanto mi mancherà, però lei sorride, perché è come la questione del tempo che scorre veloce: deve andare così. Allora, prima di partire, mi attira a sé e, finalmente, dopo che era passato tanto tempo da quando gliel’avevo chiesto, ci baciamo ed è una sensazione dolcissima ed amara, che non so se sono in grado di vivere appieno. Vorrei durasse di più, ma lei si scosta e mi sorride rassegnata e terribilmente dolce.
Non so cosa dirle e anche lei tace, sale in macchina e va via.
…
Era tantissimo che non sognavo un bacio. Un’eternità, quasi. Probabilmente ci sono state troppe emozioni non espresse, oppure, troppe emozioni e basta. E così, dopo una notte del genere, forse non dovrei stupirmi se poi piango davanti ai festeggiamenti dei tifosi che esultano in un’esplosione genuina ed incontrollabile.
Forse no, le mie lacrime non sono poi così facili: sono solo le situazioni, gli eventi e le persone che incrocio…