Irrisolte

Dove iniziano i condizionamenti sociali? Dove finiscono, per dare spazio ai desideri personali? Dove inizio io, se un “Io” non può mai essere separato dal contesto culturale in cui si sviluppa? E lo sappiamo che, no, non può.
In quale modo, allora, accogliere il proprio desiderio, una volta ascoltato? Una volta legittimato nella sua esistenza? Mi piacciono cose che non vorrei mi piacessero? Può una fantasia erotica essere “politicamente inaccettabile”? Se il personale E’ politico (e lo è), che ruolo ha l’erotismo in questo? E i sogni in cui ci si culla, sperando nella loro realizzazione? In quale modo il mondo interiore è politico? Esiste uno spazio che sia solo mio, non grande quanto una stanza, ma piccolo, cruna di ago, dalle pareti di splendido diamante, inattaccabile dall’esterno e che non filtri nel mondo?
E una spiritualità coltivata consapevolmente come può evitare, ad un certo punto, di entrare in collisione con una visione del mondo politicizzata?
E’, la mia, solo separazione di personalità? Schizofrenia? Quante me esistono.
Sono io, forse, il diamante dalle molteplici facce?

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Cos’ha la lavanda

Sulle labbra, il sapore speziato dei biscotti.
Tutto profumava, mentre il vento mi accarezzava la pelle,
E la lavanda si stagliava contro il cielo azzurro
Innocente e viola, più sgraziata di una margherita.
Nel sole, nel mondo, mi sentivo un po’ lavanda anche io.

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Pulsazioni

Sono viva.
Sangue caldo, organi tiepidi. Mani fredde.
Cervello elettrico, spirito fluido ed inchiostro.
La lepre salta nel fuoco, ma io languisco nella luce lunare; viva, ma in attesa.
In attesa dell’incontro: mi chiami da mesi, ed io te.Verrò a trovarti, ripescando nelle memorie la strada per tornare ai tuoi luoghi.

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Frammenti

Da qualche settimana vivo un senso abbastanza angoscioso di solitudine. Mi sovvengono tutte le occasioni in cui mi sono sentita sola, cosa ho provato in quei momenti, come ci sono sopravvissuta, se ho riso, pianto, me la sono goduta o sono fuggita. E, dal passato, sbatto in faccia al presente, veloce come se avessi preso la rincorsa: mi guardo attorno e mi sento ancora più sola. Incontro qualche persona, ci parlo, condivido momenti, ma la mia pelle è una barriera insormontabile che nulla può penetrare. Dentro brucio, incandescente, ma, fuori, i miei gesti e le mie parole sono solo mite vapore, nel tentativo di ridurre tutto a livelli emozionali adatti al quieto vivere.

……
Sola con le mie paure, sola con le domande senza risposta, sola nel tentativo di vivere, divorando avidamente le storie delle/gli altr* per capire se possano adattarsi a me, se, dentro di loro, nascoste, esistano delle parole magiche che io sia in grado di utilizzare e che si adattino alla mia esistenza.
Sola a cercare compromessi, spiegazioni razionali, i gesti e le parole giuste. A sbagliare, a cadere e a crogiolarmi nel dolore e nel pianto, amara indulgenza, nella certezza che sono le/gli altr* a fare schifo e io, invece, io no. L’Unica. La Sola.
……

Sola, come quando, durante il mio primo bagno nell’acqua dolce di un lago, mi immergevo, cercando di stare sotto il più possibile e guardavo affascinata il cielo sereno dal fondo. Nessun rumore, nessun’altra persona, solo il cielo increspato dalle onde.

A volte è bello. Molto spesso, di questi giorni, è insopportabile.

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Primavere

Sento il picchio, lontano nel bosco, e la brezza che soffia tra le fronde degli alberi. Giochi di luce ed ombre sull’erba tagliata non molto tempo fa; fringuelli che si chiamano da un ramo all’altro. Tutto profuma di bella stagione e anche la mia stanchezza ha il sapore del pigro fluire primaverile.
Da due notti sogno l’amore: strani incontri, alcuni che sfidano il corso stesso del tempo. Sembra quasi che, quando dormo, io sia in grado di dare un nome a tutto ciò che provo. Che tutto sia perfetto.
Che tutto sia.

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Cosa fa male?

Mi linkano un articolo abbastanza ridicolo. Lo metto qui, un po’ nascosto, perché è piuttosto patetico: sono riuscita a leggerlo unicamente badando ad una riga dispari ogni dieci. In realtà non voglio discutere del discutibile: si parla di poligamia, quindi di qualcosa che non mi interessa (il matrimonio), il punto di vista è unicamente quello maschile, quindi il mio livello di attenzione si abbassa ancora di più e, in più, si affronta il tema delle malattie cardiovascolari, argomento per trattare il quale manco di competenze adeguate. La verità è che nel mio cervello si accendono i pochi collegamenti ancora buoni e penso a quante persone, leggendo questo articolo, lo interpreteranno come una critica al poliamorismo o alle relazioni aperte (ma ci sarà anche quell* che troverà una critica al genere femminile tutto). E’ un volo di fantasia un po’ più spinto quello che mi fa interpretare in senso metaforico il titolo: quel “fa male al cuore” mi colpisce.

Penso che quello che fa realmente male al cuore sia l’amore così com’è concepito nella nostra società. Le barriere che siamo costrett* a mettere per suddividere e classificare tutte le relazioni interpersonali. Quelle stesse barriere che mi soffocano ma che, al contempo, non riesco a superare: non riesco a vedere cosa ci sia oltre, se mai esista, un “oltre”. Perché esiste qualcosa che non puoi ancora nominare? E, nel momento in cui manca un vocabolario (anche di gesti) comune, quante possibilità ho di esprimermi ed essere sicura di venire capita, facendo vedere alle/gli altr* quello che ho scorto oltre confine? Ed è la paura di fraintendimenti che mi spinge ad analisi sempre più certosine che, lavorando su materiale fluido come il sentimento e le sensazioni, non portano assolutamente a niente. Affondando nel microscopico particolare, mi ritrovo perduta nello sterminato tutto e viceversa: se mi apro, finisco per costruire confini e specificazioni che mi chiudono in scatola.
Gioco spesso a guardare questo mio corpo, comprensivo delle sue sensazioni, come fossi un’estranea, una qualche intelligenza artificiale che giudica le emozioni, consapevole che siano frutto di reazioni chimiche e, allo stesso tempo, analizzandone le conseguenze: entusiasmo, calma, tristezza, amarezza… Mi dico “passerà” o “ricordatelo”, a seconda della qualità di quanto sto provando, ma scorgo i limiti di questo agire: la macchina che fingo di essere non può far altro che osservare ed annotare. Non riesco ad andare oltre, né a sfuggire alla cultura che mi è stata imposta, che giudica ogni cosa che provo come positiva o negativa, a seconda di quanto fa comodo, tanto che, in realtà, dovrei parlare di “utile o inutile”, anche quando si parla di felicità o amore. Quindi anche io finisco per ripetere quanto mi è stato insegnato: la rabbia è male; l’amore è bello, ma solo se è definito in una determinata maniera e, contemporaneamente, mi rende stupida e non produttiva; ciò che non segue determinati rituali non può essere definito “___” (amicizia, amore, altro…) e quindi non esiste. Per questo motivo, spesso, non so cosa sto provando: annoto la contentezza, la commozione, il desiderio, ma stanno fuori da ogni casella fornitami e dalle “procedure” testate, approvate e diffuse come verità e, quindi, non sono sicura siano vere.

E’ questo, alla fine, che mi fa male al cuore.

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La mamma del Black (bloc)

Da qualche giorno gira in rete un video di quelli giudicati simpatici: un ragazzetto (Nero) che protesta a Baltimora per le note vicende di razzismo della polizia statunitense viene riconosciuto dalla madre, preso a ceffoni e trascinato a casa. Dopo “i gravi fatti di Milano” (cit. di qualsiasi testata giornalistica) il video ha ripreso, noto, nuovo vigore sui social network con commenti del tipo “se anche le mamme dei NoExpo avessero fatto così…” e vi si mescolano sentimenti di derisione e odio. Si deride il giovane perché è, appunto, giovane, irruento, e disgraziatamente menato dalla madre, cosa che, di certo, non fa di lui “un UOMO” come quelli che, in teoria, avrebbero il diritto di protestare per le strade, secondo una logica perversa per cui solo gli UOMINIVERI hanno il diritto di protestare e, contemporaneamente, chi protesta è niente più che un parassita adolescente fannullone e distruttivo(1). Forse lo si deride un po’ anche perché è Nero, perché, si sa, chi ride da dietro lo schermo di un pc lo fa con quell’aria di superiorità paternalista e bianca propria di chi non ha tempo da perdere in idiozie del genere (tipo…tipo…il razzismo, ecco), contrariamente a quel-perditempo-là-fancazzista(negro!!!)-chissà-che-c’ha-da-fare-tanto-casino.
E poi c’è l’odio, quando si collega il video a coloro che a Milano hanno protestato contro l’Expo e hanno scribacchiato, incendiato, rotto. Che poi, appunto, tutt* le/i manifestanti si sono res* colpevoli di devastazione e hanno dato fuoco almeno ad una macchina ciascuno: guidat* dai media, veniamo a sapere che la protesta non è mai esistita; esisteva solo la voglia di distruggere. E’ così ogni volta, e ogni volta non ci sono ragioni perché “ma facendo così si passa dalla parte del torto!”.

A quel punto, la rabbia sale a me: quante giustificazioni siamo in grado di dare alla violenza dell’autorità, invece? Che sia politica o economica. Che sia visibile (le mazzate) o meno (inquinamento, vite intere sacrificate all’altare del guadagno, schiavitù di ogni genere, fame, vaccini troppo poco interessanti economicamente per venire prodotti/studiati…). Non ce n’è mai abbastanza che possa giustificare la gente che si incazza e spacca tutto. Che spacca le cose. Le stramaledette COSE: mica le vite di miliardi di persone sul pianeta!
No, il problema reale sono le vetrine rotte. Mica le multinazionali come Coca-Cola o McDonald’s che sponsorizzano un evento per soli ricchi il cui tema è -o, perculatio profondissima!- “Nutrire il Mondo”. E neppure il fatto che lo stesso evento scelga di celebrare la DONNA, quella che dà la vita, che “si prende cura di…”, che “è nutrimento per…”. Eccola lì, bella Madonna. Santa e buona, pronta al perdono, ad accogliere e sopportare con vero spirito di sacrificio, a tenere sulle spalle il peso di un pianeta intero e di tutti i suoi morti, delle carestie, guerre e violenze che, alla fonte, magari, trovano proprio gli sponsor di cui sopra (ma che non possono venire menzionati, guai!). Perché è così, ci insegnano, che si dovrebbe lottare: con la pazienza, il silenzio, il perdono e la sopportazione. Eventuali scatti d’ira sono giustificati solo quando la prole sgarra e, stufa di subire soprusi di ogni genere, invece di starsene a casa a piangersi addosso, finisce per strada a lanciare sassi contro la polizia. Solo allora la DONNA può diventare feroce e riportare all’ordine l’indisciplinata discendenza, per il godimento di chi in strada non ci pensa ad andare neppure lontanamente perché sta bene così, davanti al computer, a giudicare dall’alto quei poveri sfigati o maledetti stronzi(2), a seconda di come si guardano le cose.

Che poi, certo, le cose da dire non si concludono qui. Posso dire che non ho nessun interesse a sapere se erano in 4 o tutt*, ieri, a sfondare le vetrine, perché non è quello il punto. Posso dire che ho sicuramente paura della violenza e della massa e le manifestazioni a cui sono stata sono poche (e alcune le ho volutamente saltate per angoscia), ma mi spaventano molto di più la polizia in tenuta antisommossa (perché non sai mai cosa aspettarti, da quella gente) e tutt* coloro che stanno ai vertici e decidono per noi DI noi (perché, invece, da loro sai benissimo cosa aspettarti). Potrei dire altro, ma la verità è che adesso sono stanca e troppo, troppo arrabbiata per continare.

 

(1) generi grammaticali maschili mantenuti proprio perché la lotta è “propria del maschile” (sigh).

(2) idem.

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Nostalgia

Se i miei capelli fossero glicine
fiorirebbero in Primavera
e lilla sarebbe l’espressione della mia felicità.
Il vento porterebbe lontano il loro profumo,
preannunciando il mio arrivo
e tu, ogni anno, mi ruberesti due fiori:
uno da portare sempre con te
e l’altro lo mangeresti, dolcissimo.

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Peccato fosse un giorno strano (volevo l’anima)

Ho da tempo abbandonato ogni velleità politica, temo. Apro il blog e, niente, mi scivola dalle orecchie l’adolescenza mai vissuta. E’ già un anno. Mi manca solo di andare fuori ad incidere nomi sui tronchi d’albero, o lunghe strisce sulle braccia. Quella adulta cinica che vive dentro il mio corpo china il capo da un lato e mi penetra il cervello col suo sguardo di scherno. “Patetico”, la sento pensare. La bestiola innocente che non è mai cresciuta, invece, saltella qua e là, a metà tra cane ed orso (ed in entrambi i casi ha spesso la lingua di fuori). Credo conosca una sola parola: “Giochiamo?”.
Ma se loro sono le uniche che riconosco, chi è la terza che sta scrivendo?

Non so cosa mi prenda: credo siano i flussi ormonali, perché è una sensazione che conosco bene e che si è già presentata, il pianto nascosto dietro gli occhi, come una molla che si carica. Attende solo una scusa. Mi sento appiattita in un’amara sensazione depressa: non ho voglia di fare nulla, solo starmene a dormire, lasciar scorrere i sogni ad occhi aperti, quelli che un po’ fanno bene e, alla lunga, fanno malissimo e creano dipendenza. Tra rabbia e nostalgia, mi incazzo perché non so scegliere. Allora cerco di trovare delle distrazioni, in modo da lasciare che il tempo scorra e io possa ritrovarmi “qualche giorno dopo”, come quando, nei cartoni animati che guardavo da piccola, la/il protagonista entrava a scuola e, nella scena successiva, suonava già la campanella della fine delle lezioni e io mi domandavo come fosse possibile: come faceva? Il taglio corrispondeva alle sensazioni del personaggio principale? Sentiva anche l*i che la giornata era già passata senza quasi rendersene conto? Poi speravo succedesse anche a me, quando i minuti avevano il sapore delle ore.

Insomma, mentre ascolto tutto il cd “Cuore” di Gianna Nannini (pessimo, pessimo segno: lo scelgo sempre quando mi sento più Amara che Me -e pensare che, quando lo comprai appena uscito, neppure mi piaceva granché), cerco le ragioni per gioire almeno un po’, per evitare di abbandonarmi al blu più completo (in senso inglese).

1. Ieri era quasi il tramonto e guidavo. Dietro di me una chiazza di sereno, sopra e davanti a me nuvole e nebbia che si tingevano d’oro. Nell’umidità che piovigginava, un arcobaleno immenso, e, guardando il verde dei campi e del bosco, è stato come rivivere qualcosa di remoto e dolce che associo al concetto di “Irlanda”. Non quella vera che ho visto anni fa, ma quella che sembra un misto tra il ricordo di una vita precedente e l’idea mitica di un luogo di pace. Per strana che sia, è pur sempre una sensazione piacevole.

2. Sempre ieri, arrivata a casa, ho perso mezz’ora dietro una salamandra. L’ho guardata a lungo e poi ho fatto in modo di spostarla da quella che giudicavo una posizione pericolosa per lei (spero di aver scelto bene e di non averla messa in una situazione peggiore). Era bella, per quanto buona parte degli altri esseri viventi mi disgustino. Era bello che la trovassi bella. Era bello cercare di comunicare con lei.
[Sì, lo so che non mi capiva, ma cercavo comunque di spiegarle che da quella parte non doveva andare e, nella mia testa, la trovavo simpatica]

3. Ho scritto una “lettera d’amore” a Levante. Sì, la cantante (chiedo venia per la rima). Perché era da un po’ che ci pensavo e perché volevo che sapesse che mi ha resa felice. Lo so che sembra una cosa strana, messa giù così, ma, a leggere il mio messaggio il tutto sembra un po’ meno inquietante, lo giuro (non lo posterò come prova: occorre avere fiducia). La cosa che mi ha resa felice è che lei mi ha risposto e ho trovato dall’altra parte una persona davvero carina, nell’accezione più positiva e tenera che si possa immaginare del termine. E la cosa che mi ha resa ancora più felice è che mi ha risposto per ben due volte, perché poi lo scambio è continuato. Così: felicità gratis, quando ne avevo bisogno.

4. Sto pensando di scrivere una lettera d’amore a me stessa. L’idea, per ora, l’ammetto, non mi rende né felice, né infelice. Diciamo che questo punto è un po’ sulla fiducia: magari funziona. Magari finalmente la smetto di flirtare con me e basta: forse riesco a sorprendermi e finisce che mi sposo.
Magari domani ci provo. Con me.

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Pergamena

Sono troppo vecchia, troppo vecchia per innamorarmi per la prima volta.

E allora fai finta che sia la seconda.

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