Un vero signore!

Oh, alla fine s’è scusato per (alcune) delle sue pregne dichiarazioni.

Non posso far altro che prenderne atto, dunque. E sìa:

sBarillami

Accetto le tue scuse. Nel senso di “usare un’accetta”.

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Basta Parilla!

Be’, insomma, tale Barilla ieri, durante un’intervista del programma “La zanzara” si è espresso in maniera ineccepibile su due temi scottanti:

Tema 1.

In risposta alla critica della Presidentessa della Camera Boldrini che criticava l’uso della figura femminile nella pubblicità, citando il classico della donna che serve la famiglia a tavola:

“Laura Boldrini non capisce bene che ruolo svolge la donna nella pubblicità. E’ madre, nonna, amante, cura la casa, cura le persone care, oppure fa altri gesti e altre attività che comunque ne nobilitano il ruolo. E’ una fondamentale persona per la pubblicità, non solo italiana. In tutti i Paesi del mondo la donna è estremamente usata.”

Trovo che sia interessante l’innocenza con cui quest’uomo esprime certi pensieri. Come se fosse una frase facile da pronunciare quel “la donna è estremamente usata”. E’ evidente come, in momenti carichi di tensione quali le interviste, alcune persone si agitino troppo rischiando il tilt, perché non trovo altre spiegazioni per la nonchalance con cui certe affermazioni escono.
In realtà, qui gli interrogativi che mi pongo riguardano l’atteggiamento di chi parla in questo modo; in particolare, non riesco a capire se:

A) si tratti di un “Mamma, ha iniziato Pierino!” buttato là per giustificare la mancata originalità (o, detta in gergo, per pararsi il culo cercando di sviare l’attenzione su altre realtà che agiscono allo stesso modo);

B) si tratti di una tranquilla ed acritica accettazione dello status quo, una realtà che considera le donne come oggetti da poter (estremamente) usare, senza porsi minimamente qualche domandina, neppure nel momento in cui i dubbi vengono avanzati da altr* e ci si trovi a doverli affrontare (anche se, in questo caso, sembra più un “saltarli a pie’ pari”).

Probabilmente è un misto tra le due. Però mi aspettavo di meglio da una persona che vive nel Duemila e passa e non ha neppure la scusa della povertà per non studiare (inteso come accesso ai mezzi di informazione/acculturazione) e aprirsi un po’ la mente. Tipo, eh.

Tema 2.

“La nostra è una famiglia tradizionale. Se ai gay piace la nostra pasta e la comunicazione che faccciamo mangeranno la nostra pasta, se non piace faranno a meno di mangiarla e ne mangeranno un’altra. Ma uno non può piacere sempre a tutti per non dispiacere a nessuno. Non farei uno spost con una famiglia omosessuale, ma non per mancanza di rispetto verso gli omosessuali che hanno il diritto di fare quello che vogliono senza disturbare gli altri, ma perché non la penso come loro e penso che la famiglia a cui ci rivolgiamo noi è comunque una famiglia classica”

Wow! Qui davvero c’è troppa grazia: non so da dove cominciare ad elencare le cose che mi urtano.
Devo parlare della famiglia tradizionale/classica? E di quale tradizione, esattamente? Immagino il collegamento parta da sopra, dove si citava il ruolo (a questo punto non unicamente pubblicitario) di uno dei suoi elementi, ossia la donna. Se è così, l’omino qua l’abbiamo perso: vagli a spiegare, tu, tutta la storia dell’emancipazione femminile. Secondo me sarebbe inutile anche partire con la questione dei femminicidi (che pure sembrano far furore sulla stampa – e un giornale, el siôr*, lo leggerà, no, qualche volta?) e le violenze che avvengono soprattutto in famiglia. Altro che spaghetti: vuaines**!
Devo aggrapparmi all’espressione “senza disturbare gli altri”? Ma chi? Le/gli etero(normativ*) che devono vivere la loro vita tranquilla, senza essere mess* in discussione da altre realtà? Le/i politiche/i che hanno ben alto a cui pensare rispetto all’omofobia o anche alla semplice uguaglianza delle/i cittadin* di fronte alla legge (ammesso che “La Legge” valga qualcosa)? Il Papa che altrimenti s’affanna troppo e gli viene un coccolone (dannazione, no: proprio ora che ce n’è uno così bellobuonobravo che un’operazione mediatica di questo tipo non riusciva così bene da tempo immemorabile)? Chi non devono disturbare? I bambini-chi-pensa-ai-bambini che sia mai che con le loro menti malleabili finiscano per pensare che, boh, mica è poi così strano che due*** donne o uomini stiano insieme.
Forse è la questione del “non la penso come loro” che potrebbe risultare interessante da sviscerare. Chissà che cosa pensano le/gli omosessuali! Che il Sole giri attorno alla Terra o che questa sia piatta. Magari che la Luna sia fatta di formaggio. O che una donna con le mestruazioni faccia seccare le piante, se le tocca. Io non so cosa la categoria intera pensi, ma sono contenta che lui sia in possesso di queste informazioni e, soprattutto, che abbia le idee chiare.

In realtà, credo che la cosa ad infastidirmi di più sia che si tratta di un’azienda e per l’azienda non esistono le persone, ma solo “il consumatore”**** a cui indirizzare i vari messaggi. Chiaramente ora inizierà il giusto boicottaggio (cosa che, per quanto riguarda la Barilla, faccio già da molto tempo perché mi fa schifo non solo il prodotto, ma tutto quanto ci sta intorno -e, a quanto pare, avevo ragione), ma non è l’unica cosa che avrà inizio: sono già comparse le prime “risposte/provocazioni” da parte delle aziende concorrenti. Alcune molto belle, altre un po’ scontate. Per quanto certi messaggi faccia sempre bene leggerli, non riesco a non vederci la speculazione: eh, facile, adesso! Però io non voglio esistere solo quando devi vendermi qualcosa. E non ditemi “E’ il mercato, giovine!”, non mi interessa e, soprattutto, non lenisce la mia amarezza.

Infine, amaro per amaro, mi domando come mai si stia facendo così tanto casino per la -gravissima- affermazione sulle famiglie omosessuali, ma non venga affiancata ai motivi della chiamata al boicottaggio la retrograda ed altrettanto grave affermazione sulle donne nella pubblicità (almeno, io non ho visto mai citate le due cose insieme).
Ancora invisibili, sì?

 

* Trad. dal Friulano: il signore
** Trad. dal Friulano: tegoline, fagiolini. Figurativo: botte
*** Rimango sul due per non complicare troppo le cose (e poi, i-bambini-chi-pensa-ai-bambini, insomma!)
**** Lascio il termine volutamente al maschile, perché così è utilizzato quando si parla di Mercato: le donne, possono essere “estremamente usate”, ma mai considerate come parte attiva.

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Autorappresentazioni

Qualche settimana fa mi è stato chiesto, per un progetto riguardante l’autorappresentazione delle donne, un autoscatto. Ero di fretta, purtroppo, e ho fatto meglio che ho potuto. Ne è uscita una foto un po’ sfocata, in parte abbagliata, ma dannatamente bella. Ho un’espressione strana -potrei definirla sensuale?- e una posa che non smette di farmi pensare ad una divinità che esce dalle acque (non lo so, saranno i fianchi morbidi, la testa che tende a reclinarsi all’indietro, sarà che sono proprio tipa da divinità che esce dalle acque…), anche se la verità è che io, in quella foto, volevo essere soprattutto nuda.

E’ strano, oppure no, ma da qualche tempo il mio personale rapporto con il (mio personale) corpo è parzialmente cambiato. Certo, resta sempre molto complesso e non credo che sarei in grado di sbrogliare facilmente la matassa che questo finisce per comporre nella mia mente cosciente e non, però qualcosa si è modificato -anche se, grazie a cosa, mica lo so bene.
Mi guardo con occhi diversi. Sono sempre stata molto curiosa, questo è certo: le mie mani, i miei occhi, la mia pelle i miei capelli, il mio profilo, le mie espressioni…tutto quanto; mi sarei guardata e mi guarderei per ore. Le foto, da sempre, mi imbarazzano e mi incuriosiscono. So, dopo attente osservazioni ed approfonditi studi, di avere una “faccia da foto”, ossia un’espressione “controllata” che emerge quando mi accorgo che mi stanno riprendendo, in modo che l’immagine di me esca “meno peggio”, se proprio devo comparire senza fare una faccia stupida (che, invece, non mi imbarazza in quanto volutamente “finta” e “caricaturata”); il fatto è che spesso mi trovo a desiderare di essere colta di sorpresa, quando non so come si stiano muovendo i muscoli del viso e, in generale, come io stia esprimendo le emozioni. Mi è capitato di “autoscattarmi”, cercando di non porre alcun freno alle espressioni che facevo. In questi casi, capita che faccia fatica a “riconoscermi” e non mi consideri fotogenica (sono poche, molto poche le foto “a sorpresa” in cui mi piaccio), però sono anche le immagini di me che più mi fanno riflettere: “Sarò così anche “dal vivo”, o è solo il “frame” ad essere ridicolo/brutto/deludente/…?” o un molto più semplice-eppur-complesso “Sono così?”. Quindi mi osservo. Raccolgo nel mio archivio tutte le mie facce. Cerco di ricordarmi come sono, anche al di là del viso: quanto spazio occupo? Che differenze ci sono tra le mie proporzioni e quelle altrui? Quali angoli possono produrre le mie articolazioni? Mi ricostruisco in 3D nella virtualità dell’immaginazione; ma se all’inizio questo processo aveva scopi denigratori e di controllo (non sono abbastanza bella/alta-o-bassa/magra/aggraziata…quindi devo cercare di “trattenermi” -producendo, ad sempio, la suddetta “faccia da foto”), ora è diventato più “scientifico”, accompagnato da un vago senso di piacere. “Sono così. Sono proprio così'” e lo dico a volte sorridendo, altre volte semplicemente alzando le spalle.
Ho iniziato a non depilarmi, perché “sono così” e ho avuto anche il “coraggio” (virgolettato, perché non dovrebbe trattarsi di un atto rivoluzionario, ma la nostra società non è delle migliori, su questo genere di argomenti) di andare al mare senza preoccuparmi di coprire tale “vergogna”. Ho iniziato a fotografarmi o riprendermi nuda, perché “sono così” e voglio vedermi più spesso. Mi sono fatta fotografare (semi)nuda, perché “sono così” e “così” era proprio la misura che andava bene. Chiaramente non ho magicamente risolto tutti i problemi di relazione col mio corpo, né posso dire che i conflitti siano vicini ad un cessate il fuoco, però qualche virgola si è spostata.

E’ in questo complicato contesto che si inserisce la foto che ho fatto: dovevo autorappresentarmi e quindi ho scelto di essere bella-così-come-sono. Senza troppe forzature, senza tentare di nascondere nulla (appunto: in realtà volevo essere nuda). Solo qualche passo indietro nel tempo e avrei scelto una posa diversa: niente sguardo diretto (anzi, forse rivolto verso il basso e di lato), composta e placida. “Innocua”. E di certo la macchina fotografica non sarebbe stata ad altezza del pube. Se guardo questa immagine (che non pubblicherò, mi dispiace) mi vedo, invece, traboccante.
E’ chiaro che questo è solo un frammento di uno “stato di grazia”: non si esaurisce qui il mio lavoro su me stessa, né, credo, si possa iniziare a parlare di raggiungimento di un buon livello di accettazione di sé. In realtà questa foto ha aggiunto nuove domande al mio ragionamento/percorso: mi vedevo davvero così, in quell’attimo? E’ stata fatta affinché piacessi? Se è stata fatta affinché piacessi, a chi dovevo piacere (me, una persona specifica, tutt* le/gli eventuali osservatrici/ori)?
In questo momento sarei molto portata a dire* che si è trattato del bagliore di quel preciso attimo: stavo bene e volevo e sentivo di essere “trasparente”; emanavo sensazioni piacevoli. Se cerco di recuperare i ricordi (nonostante la loro nota inaffidabilità), mi rivedo e “risento”: erano molte le emozioni in ballo e sentivo di non essere in grado di contenerle. Fluivano da me, prima e meglio delle parole, fino a rendere ogni razionalizzazione inutile (sebbene io ami, no, anzi: viva per razionalizzare tutto). Ero così per me e per chi era lì. E quindi anche per la foto.
Quindi era questa, la mia autorappresentazione: solo un istante intenso, acciuffato prima che svanisse. Anche se spero possa rappresentare un buon passo affinché diventi una realtà, se non costante (“Solo gli dei possono sopportare così tanto amore…” Cit. a braccio di non ricordo chi o cosa), almeno un po’ più presente nel mio mondo interiore.

 

*questo non significa che sia realmente così: sto solo cercando di interpretare e tradurre qualcosa che a parole non è esprimibile in quanto non necessitava, sul momento, di essere analizzato ed espresso in altri modi e codici

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Donnassassina

Ogni mattina, in stazione, trovo Il Quotidiano, giornaletto sottile che riporta alcune notizie di cronaca nazionale o regionale, commenti, rari interventi di lettrici e lettori, articoli sull’economia, cultura e sport, oroscopo… Insomma, un giornale come gli altri, ma meno impegnativo dal punto di vista della lunghezza degli articoli, adatto ad un tragitto breve sui mezzi pubblici. Lo leggo non perché sia particolarmente bello, solo che è gratis e l’alternativa è quella, oppure dormire.
Molto più spesso, comunque, dormo.

Sfogliandolo, oggi (ché non dormivo), sono capitata su questo pezzo:

Articolo da Il Quotidiiano FVG

Articolo da Il Quotidiiano FVG

In rosso ho sottolineato la frase che ho dovuto rileggere almeno quattro volte, mentre in giallo ci sono gli accenni alle violenze già subite dalla donna che pare aver infine accoltellato il compagno per autodifesa.
Ebbene, nonostante, appunto, i riferimenti al reiterarsi delle situazioni di violenza, il o la giornalista non ha saputo trattenersi dall’aggiungere un po’ di sano romanticismo: il gesto d’amore, l’atto del perdono anche in punto di morte.

E’ incredibile come nessun* sembri in grado di uscire da questo malefico meccanismo: cestinare ostinatamente le regole del giornalismo (a scuola, ricordo, la mia prof mi faceva una testa così sull’oggettività: fatti e solo quelli; le opinioni personali non hanno nulla a che fare con la cronaca) per continuare a dipingere coi colori del fascino eventi che di affascinante non hanno nulla. A che cosa serviva quella frase? Che razza di attrattiva ha, nella mente dell’autrice/ore questa storia? Una relazione violenta che finisce con l’omicidio di quello che pare essere l’aggressore non è un racconto che fa sospirare. Non dovrebbe suscitare questa sorta di ammirazione per il “buon animo” della “vittima”. E, soprattutto, è sporco e disgustoso il tentativo di ribaltare i ruoli, di spostare il probabile attore di violenza maschile dalla parte “luminosa” della vicenda solo perché, per questa volta, è stato lui a rimanerci.

“L’ultimo gesto d’amore”…quelli di prima, evidentemente, non erano stati abbastanza incisivi…

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TrabOcco d’amore

TrabUcco d’amore
divellimi il cuore.
Devastanmi l’ore
prive di te.
Te delle cinque,
con tanti biscotti
nascondo i succhiotti
e nascondo anche me.

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Zeroamorismo spaesato: amare tanto, senza amare nessun*.

Riflettevo sul poliamorismo. Mi sembra una figata: una cosa bellissima e colma di libertà, argomento da gente matura o che, almeno, ci prova, a “crescere”. Una realtà che richiede impegno, siccome porta a lottare contro tutte le idee malsane che ci vengono inculcate sull’amore e, in generale, sulle relazioni e che, quindi, merita tutta la mia stima.

Se io amassi, se ne fossi in grado, vorrei davvero essere poliamorista. O avere un relazione aperta.

Però odio la gente, quindi credo che inizierò un nuovo movimento; mi nominerò capostipite di una nuova corrente di pensiero sull’amore, sebbene, dato che ne siamo così affamat*, le parole, teorie, scuole, corsi, libri, CD e audiocassette sull’argomento si sprechino.
Ci vuole un nome, e, poiché non amo nessun*, sarò una Zeroamorista. E questo è il primo tentativo di manifesto:

– Le e gli Zeroamorist*, a dispetto del nome, amano. Oppure no. In realtà fanno come pare a loro. Solo che, generalmente, sono molto più propens* ad amare animali, cose, sensazioni ed emozioni che altre persone, perché è pù facile. I sentimenti che un* Zeroamorista prova possono essere anche molto intensi, e ispirare opere d’arte magnifiche (o discrete, o persino brutte, ma comunque frutto di un proprio tentativo di espressione), ma spesso fanno parte di un ribollire confuso ed inespribimile. Per questo motivo, dato che, di solito, con le persone è necessario essere in grado di  comunicare in maniera abbastanza chiara i propri sentimenti, le e gli Zeroamorist* preferiscono evitare ed avere un rapporto distaccato con gli altri esseri umani.
Amare un tramonto è molto più semplice e quindi soddisfacente.

– Le e gli Zeroamorist* fanno sesso. Oppure no. A seconda. Certamente l* Zeroamorista che abbia qualche minimo contatto umano si troverà nella condizione, prima o poi, di decidere se fare del sesso. Se in vena, lo farà; declinerà l’eventuale proposta, invece, quando non sarà interessat*. Il sesso tende a piacere, alle persone, e le e gli Zeroamorist* non sono esclus*. E’ chiaro che, qualche ora dopo, l* Zeroamorista dovrà riaffacciarsi sull’orlo del calderone delle emozioni ed affrontarlo, perché il sesso fa di questi strani scherzi, però, sul momento, la prospettiva non l* spaventerà.
Il sesso può anche essere divertente: proviamolo!

– Le e gli Zeroamorist* hanno rapporti di amicizia ricchi. Oppure no. Dipende. In ogni caso possono avere amiche e amici: non c’è nulla che impedisca all* Zeroamorista di avere a che fare con altra gente e di affezionarcisi. Chiaramente il processo sarà complesso, lungo e, a volte, tormentato. Altre volte potrebbe essere molto semplice: dipende molto dal tipo di affinità che si viene a creare. In ogni caso, le e gli Zeroamorist*, proprio perché abituat* ad analizzare (sebbene senza grandi successi) il proprio calderone emotivo, tenderanno alla cautela, soprattutto nell’esprimere attaccamento. Non è difficile che un* Zeroamorista possegga un catalogo mentale dettagliato in cui i contatti con le e gli altr* siano divisi in frequentazioni, conoscenze, collegh*, compagn* di ___ (classe, corso, associazione..), più-che-conoscenti-ma-meno-di-donazione-di-organi, parenti (con o senza donazione di organi), persone interessanti, affinità, amicizie, amori, amori platonici, animali domestici…
Vuole entrare nel mio cuore? Un momento che controllo se è sulla lista.

Bene, direi che come bozza non è male. Forse col tempo riuscirò ad ampliare la lista e a pubblicare il manifesto definitivo. Sarò famosa, verrò chiamata ad intervenire ai talk-show, i giornali mi intervisteranno e pubblicherò un libro che sarà il successo di un’estate. Amerò un sacco, qualcun* in particolare e qualcun* in geneale.. E’ tanto amore, racconterò, a darmi quest’aria spaesata.

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Mostra-ti

A volte basta poco per sentirsi felici

A volte basta poco per sentirsi felici

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Nuovi diritti e vecchissime abitudini

In occasione della giornata contro l’omofobia, Arcigay Friuli e Arcilesbica Udine hanno deciso di attaccare in giro per le vie del capoluogo friulano alcuni manifesti che ritraggono una famiglia composta da genitore omosessuale e figli*. Le/i modell* sono tutt* ver*: le quattro persone sono realmente a due a due imparentate con legame madre/padre-figl*. Lo scopo di tali manifesti è quello di sensibilizzare la popolazione sull’esistenza di famiglie in cui genitori omosessuali crescono figli/e, sottolineando che la diversità rispetto alle cosiddette famiglie “normali” è nulla.
Chiaramente il progetto è ottimo e l’idea da sostenere, se non che, al momento della realizzazione, il manifesto sia uscito così:

Manifesti contro l'omofobia a Udine

Trova l’erorre

C’è proprio scritto: “…e non sa piegare i calzini come tutti i papà” e “…e rompe le scatole come tutte le mamme”. E’ davvero mai possibile che non sia venuto in mente niente di diverso dallo sterereotipo sessista? Il bello è che non riesco neppure a capire se sia una mossa volontaria o involontaria: l’ideatrice/-ore ha pensato che usare il sessismo avrebbe fatto assumere al messaggio una sfumatura “normalizzante”, oppure non si è neppure res* conto che è sessismo?
Sono stufa: che senso ha combattere una discriminazione, mandandone in campo un’altra? E’ come darsi la zappa sui piedi. Il sessismo è una fonte di discriminazione così ampiamente diffusa da risultare praticamente invisibile, ma proprio chi vive l’esclusione e l’ingiustificato biasimo sociale basato sullo stereotipo, dovrebbe prestare maggiormente attenzione e porsi la domanda: “sto discriminando”? Be’, Arcigay Friuli e Arcilesbica Udine, la risposta è “sì”, perché, se non lo sapete, non esiste la figura mitologica di “tutti i papà”, né quella di “tutte le mamme”, incarnazione perfetta di “mascolinità” e “femminilità” tanto che agli uni è geneticamente impedito di occuparsi di inutili faccende di casa come piegare i calzetti e alle altre di essere piacevoli pur mantenendo il polso rigido sul tema dell’educazione della prole.
Costava tanto pensare ad altri esempi “neutri” come:

-…e si preoccupa sempre se faccio tardi la sera;
-…e rompe sempre nei momenti cruciali del mio videogioco preferito;
-…e mi dice sempre di abbassare la musica;
-…e borbotta sempre se lascio i vestiti in giro per casa.

Adattabilissimi ad entrambe le fotografie, comunicano la quotidianità di qualsiasi rapporto genitore-figli* adolescente. Sul serio: ci voleva tanto?

Probabilmente sì.

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Cose che sono tipo cazzate. Ma più grandi.

Esistono cose, nel mondo, che sono cazzate. Enormi, potentissime e deflagranti cazzate. La cosa triste è che spesso non te le aspetti, eppure ti arrivano addosso e, assieme ad esse, cadono anche le braccia, una collezione completa di gonadi che non t’immaginavi possedere e pure qualche bestemmia.

Ad esempio, c’è questa cosa:

Ecce cazzata

Ecce cazzata

Mi spiego meglio: il messaggio “superficiale”, ossia ciò che questa scritta appare dire, è di tutto rispetto. Insomma, chi non vorrebbe un mondo privo di violenza (ad eccezione di chi si occupa di giochi di potere ed economici, chiaramente)? Perciò, sì:

– Finiamola con la violenza!
– Smettiamo di esercitare violenza!
-Che nessun* sia più vittima di violenza!

La pace nel mondo è uno dei sogni che cullo con più piacere. Non sono sarcastica: sono una hippie sessantottina la cui anima è trasmigrata in una donna d’oggi allo scopo di fare esperienza di vita negli anni Duemila. (Chiaramente mi prendo volentieri in giro: so di essere parecchio ingenua e la produzione delle mie personali visioni del futuro che contribuirò a creare lo dimostra…)

Però c’è un però. Perché la scritta non si limita solo a proclamare la fine delle sofferenze, ma si impegna affinché una parola specifica appaia cancellata pur rimanendo comunque ben visibile: WOMEN.
E lì salta fuori il problema del messaggio “subliminale”, ossia ciò che l’immagine finisce per dire. Non si tratta di una svista (o, almeno, io non ci credo): chiunque l’abbia creata ha pensato bene a come strutturarla con lo scopo che a me pare palese di sminuire la lotta alla violenza maschile e azzerare le riflessioni sulla violenza di genere. La mente che ha ideato questo messaggio ha deciso che tale argomento non era importante o non aveva senso. Oppure l’intento era molto più malizioso: modificare un messaggio politico in qualcosa di più blando e generico, in modo che, da una parte, potesse essere facilmente accettato e condiviso da una vasta maggioranza (penso anche ai social network) e, dall’altra, rendesse difficile la critica all’immagine per la presenza di quella cancellatura. Cancellatura che però rimane e continua a lavorare, a parlare, a proclamare che “Hey, sì, ok la violenza sulle donne, ma perché, i bambini no? E gli operai? E i poveri? E…e…e…?”*

Ecco, quest’immagine è stata studiata per sviare l’attenzione, per non discutere e per non mettersi in discussione e, onestamente, che compaia in spazi che si definiscono “femministi” (l’ho visto, giurin giuretto!) mi mette i brividi e mi stravolge dal disgusto.

*Sto tralasciando momentaneamente il fatto che la presenza dei simboli che circondano la O mi fanno pensare che l’antispecismo non sia neppure stato considerato

 

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Riflessioni, percezioni, pregiudizi.

Temo sia il karma: la Ruota del Tempo che Macina Eoni mi sta facendo tornare allo stesso punto da qualche tempo. In prigione, senza passare dal Via. E quindi, mentre dovrei lavorare e invece cerco sul Tubo una playlist a caso di Gianna Nannini (perché ora mi è preso il suo trip e non posso fare altro che assecondarlo sognando che un giorno la incontrerò e la porterò fuori a bere un succo di frutta -mentre a Regina spetta un caffé, o un pranzo), mi capita uno di quei maledetti spottini che aspetti passino cinque secondi per skipparli sperando che non inizino a parlare nel mentre. E invece questo inizia a parlare, ma qualcosa mi impedisce di saltarlo e finisce che lo guardo tutto. Non paga, dimentico Gianna (mi perdonerà: le scriverò una lettera, ché sono brava a farlo, e mi perdonerà) e mi metto alla ricerca proprio della pubblicità, trovandola.

http://www.youtube.com/watch?v=litXW91UauE

Alla fine piango come una fontana: parla della percezione di sé e di ciò che, invece, vedono le/gli altr*. Chiaramente si limita all’aspetto esteriore, ma lo spunto potrebbe tranquillamente estendersi a tutta la persona: carattere, capacità, comportamento…
E’ una domanda che mi tortura spesso: cosa vede la gente, in me? Cosa viene percepito, al di là di quello che posso dire o non dire? Nei momenti particolarmente bui mi domando che gusto masochista provino certe persone ad avermi intorno o, se proprio voglio farmi male, a cosa “servo” -perché deve esserci un secondo fine per forza, per frequentarmi. Non che succeda spesso: la maggior parte delle volte mi limito ad essere stupita e a sperare che nessun* si accorga di aver commesso un enorme sbaglio. Provo a non rilassarmi troppo, a non aprirmi e a stare sempre all’erta. Tento di controllarmi il che, chiaramente, non succede sempre, perciò qualcosa di me, di “Profondamente Me” esce. Sono sicura di averlo già detto, tutto questo, proprio in questa sede, però è evidente che non ho superato la cosa o, se devo usare terminologie corrette, il problema. Perché si è in presenza di un problema quando c’è qualcosa che ti blocca da qualche parte, che ti condiziona l’esistenza, che rimane fisso nei tuoi pensieri e ti costringe ad essere completamente vigile, quando non -tremenda confessione- a immaginarti scene intere e a fare “le prove” di quello che potresti dire, valutando diverse reazioni e prospettive, in modo da essere sempre pronta a tutto o quasi. La cosa ridicola è che poi penso: ma se la gente mi frequentasse solo perché sono brava a fingere? Se fossi veramente un’ottima attrice? Il solito dilemma dell’incanto d’Amore: faresti mai bere un filtro alla persona amata che però non ti ricambia in modo che s’innamori di te? E quanto tempo ci metterebbe il tarlo del dubbio (o dell’egocentrismo) a perforarti qualche parte di cervello in modo che la domanda cruciale possa filtrarti nella coscienza: “Mi amerebbe così come sono anche senza pozione?”
Allora mi domando: cosa di me viene fuori? Cosa vede la gente? E, soprattutto, ci vede giusto? Questa pubblicità mi ha scaraventata in un pantano di pensieri: da una parte mi piacerebbe sapere come vengo vista. Dall’altra so -lo so bene perché me lo ricordo lucidamente- che in molt* (o alcun*: ho paura di contare -ammesso che la matematica valga qualcosa- per scoprire che sarebbero comunque, troppo poch*) hanno detto cose estremamente belle sul mio conto. Sono consapevole anche di non crederci a fondo, però. E mi domando quanto il filtro della mia “presenza” (il fatto cioè che io stessa sia la destinataria delle opinioni espresse su me medesima) non influenzi i modi di esprimersi di chi ho (anche virtualmente) di fronte.
Si tratta di pensieri vagamente circolari, fatti di, “sì, ma” e “no, però”. L’unica cosa reale ed effettiva sono io ed il mio comportamento, il mio modo di cercare una via di fuga o, almeno, un modo per difendermi dall’esterno. Salvo poi sentire un disperato bussare da dentro e delle grida: “Vedimi! Ti prego, vedimi!”.
Forse è per questo che scrivo: mi sembra di riordinare i pensieri, mi sembra di dare una disciplina al tumulto interiore e mi sembra di permettere a molte cose di uscire. Anche se non so per chi: credo soltanto che necessitino di stare fuori, respirare. Esistere in qualche modo, solo per il fatto di essere state nominate. Insomma, vorrei che qualcun* mi vedesse e vorre che nessun* mi vedesse (verrebbe a mancare altrimenti qualsiasi protezione o nascondiglio) e quindi scrivo a tutt* e nessun*. Così non sono proprio io, o non del tutto, e invece sì, almeno un po’.

E non desidero, eppure muoio dalla voglia di sapere che cosa capisca di me la gente che ho intorno…

 

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