Film sull’Amore

L’altro giorno ho guardato un film di quelli leggeri, “L’amore non va in vacanza”, con Kate Winslet (rossa e morbida: quanto mi piace!) e Cameron Diaz. Le due, dopo una delusione sentimentale, si contattano tramite un sito web/chat e si scambiano la casa per un breve periodo; a cavallo delle vacanze invernali, perciò si trasferiscono una in America e l’altra in Inghilterra dove, dopo varie peripezie, troveranno il nuovo amore. Evviva.

Mentre lo guardavo, comunque, mi sono sospresa a riflettere sulle mie reazioni di fronte a quanto vedevo: sorridevo se la protagonista (soprattutto Kate: cosa ci posso fare!?) sorrideva, mi sentivo felice con lei e credevo nell’amore, annuendo bonariamente di fronte ai primi dolci segnali. E poi mi sono chiesta: ma cos’è, questo amore? Come inizia? Cosa si prova? Come si presenta: salta fuori all’improvviso o si fa annunciare?

Come ho già avuto modo di dire (anche se non ricordo se in questa sede), non so spiegare che faccia abbia questo sentimento, sebbene abbia usato più volte la fatidica parola. In verità ho spesso avuto la sensazione di adoperarla a sproposito, almeno rispetto a quanto mi viene mostrato dalle narrazioni a riguardo. Questo scollamento tra le due realtà (la mia e quella “letteraria”) mi ha però posta di fronte ad un nuovo problema: questo parlare di amore, questo mostrarlo continuamente è solo dovuto ad un fattore commerciale (ché l’amore, in quanto sentimento piacevole, vende) o si tratta, piuttosto, di un metodo educativo ben studiato? Sono stata educata all’amore da romanzi, fumetti, film, canzoni e poesie, quindi? Insomma: mi chiedo se ne parlo così tanto perché mi hanno insegnato a parlarne; se abbiano tentato di descrivermelo in modo che potessi esercitarmi a provarlo; se abbiano provato anche ad educarmi a rivolgerlo verso le persone giuste… Ma soprattutto: perché? Immagino -e abbozzo solamente un embrione di riflessione- che la società ci guadagni ad avere sudditi indubbiamente eteronormati, innamorati, placidi, oppure alla costante ricerca di questo sentimento, abituati a pensare che solo l’amore conta e niente altro importa: può mancare il cibo, il lavoro, un tetto sopra la testa, ma mai l’amore (comodo: chi fa una rivoluzione perché lo Stato non garantisce il sentimento, quando ottenerlo è solamente una questione di meriti propri?). A questo punto, poi, chiunque non riesca a raggiungere quest’agognata meta, automaticamente è un fallito che sarà talmente depresso da non poter reagire ad altri stimoli esterni. Peggio ancora: chi magari non vede perchè dare troppa importanza a tale inflazionato sentimento sarà costretto a periodi di intensa autoanalisi sui perché e percome, cercando di capire dove sbagli.

In ogni caso, temo di non essere stata un’allieva attenta: a parte il fatto più eclatante, quello che mi vede, cioè, rivolgere le mie attenzioni romantiche a Kate Winslet, piuttosto che…che…come si chiamava il biondino belloccio? -Ecco, sì, sono un caso disperato!- Comunque, a parte questo, credo di aver frainteso parte degli interventi educativi: se dovessi definire l’amore, non sarei in grado di discriminare le volte che l’ho provato per una persona, piuttosto che per una cosa o evento. Oppure non so definire la differenza tra attrazione e sentimento, o classificarli per importanza. Addirittura -cosa veramente grave per una giovane sottoposta così tenacemente a molteplici forme di insegnamento intensivo- inizio a domandarmi se sia vero che l’amore, così come me l’hanno descritto, esista o, ammesso che sia cosa reale, se debba essere rivolto solamente verso un’unica persona. Per non parlare della durata di tale sentimento -eterno o attimo fugace?

Il risultato di tutta questa riflessione -che ha radici ben più profonde dell’analisi scaturita dalla visione di una commedia leggera- mi lascia in realtà confusa. Spesso ho provato a cercare riparo dietro il cinismo per evitare il discorso: ridevo delle romanticherie, sorridevo di ogni sospiro. Questo perché, trattando delle relazioni con persone, posso dire (posso davvero?) di non aver mai avuto delle “storie importanti”, sempre che la rilevanza di questo genere di cose si misuri in durata nel tempo: tutte “avventure” molto brevi, a volte gioiose, altre tormentate e confuse. Che la colpa fosse mia, nata incapace, monca, priva di qualche ingranaggio fondamentale? Per evitare di autoinfliggermi punizioni per questa grave mancanza, mi riparavo quindi dietro ad un disinteresse da volpe VS uva. Questo, però, non risolveva l’elemento principale: io ero impossibilitata ad amare. E poi, invece, quasi a contraddirmi per dispetto, mi sono resa conto di una cosa: non so se si tratti di una trappola ormonale, ma a volte sento il fluire di un sentimento forte e luminoso privo di ragione. Non è entusiasmo e non è rivolto verso alcunché, eppure esiste, tanto da risultare quasi palpabile. Poiché sono la più scrupolosa delle analiste, so di aver registrato altre volte questi strani movimenti dello spirito: come ho già detto, è capitato per persone, cose ed eventi, oppure per nulla; per pochi istanti o, imprevedibilmente, per anni. E non trova riscontro in alcuna narrazione che mi sia stata sottoposta, perché non ha prodotto i risultati dei film: quel sentimento non cambia il mondo, non compie miracoli, non muove la slitta di Babbo Natale (non c’entra niente, ma siamo in periodo), oltre a non sfociare nella via verso l’altare (che non ci sarebbe comunque, proprio per le mie inclinazioni, ma concedetemi la metafora). Anche per questa mancata coincidenza, mi sono sentita spesso inadeguata ed incapace: pare corrispondere e a quanto descritto, eppure il contesto non quadra, quindi, forse, sono sulla strada sbagliata. Forse sono io ad essere sbagliata. Ho immaginato di non essere in grado di adeguarmi a quanto mi veniva costantemente mostrato: mi sembrava l’unica spiegazione possibile e tale conclusione si aggiungeva ai motivi che mi portavano a cercare protezione dentro un guscio di falso disinteresse.

E, invece, quest’anno appena passato ha rappresentato per me una svolta importante: qualche piccolo ingranaggio ha preso a girare; c’è stato uno sblocco e ho iniziato a pensare (anche se forse sarebbe meglio dire “sentire”) che i concetti di giusto e sbagliato erano troppo simili a gabbie per potermici abbandonare, soprattutto se riguardano il mio modo di percepire la realtà che mi circonda.
Odio ogni dittatura e non voglio chinare la mia testa proprio di fronte a quella dell’Amore. Nessuno può o deve permettersi di impormi la visione di un sentimento che, come tale, è per forza di cose privato e non replicabile -figuriamoci imitabile! Non si insegna ad amare e, soprattutto, non è giusto obbligare la gente a farlo o a cercare di farlo, illudendola che si tratti di un bisogno da soddisfare, pena infinita sofferenza. Creare il bisogno dell’amore ricorda troppo una di quelle maledette regole della pubblicità e fare mercato dei sentimenti è cosa deprecabile, soprattutto se inizio ad ipotizzare che questo faccia parte di un piano per rendere le persone inermi ed apatiche, ulteriormente incapaci di osservare la realtà dei fatti.

Questo, lo ammetto, sta diventando un pippone enorme, ma ciò che sento di dire ora è che, per quanto abbia cercato di farne a meno e di tenerlo lontano col cinismo per una sorta di autodifesa, ora non desidero proteggermi dall’amore, qualunque ne sia la forma, anche se diversa da quella proposta a forza. Accetto di provare qualcosa di estremamente forte, anche se non assomiglia a nulla di quanto visto alla TV. Allo stesso tempo, cosa ancora più sorprendente, mi sono scoperta meno affamata di quell’unica forma che da anni mi viene mostrata e proposta: mi rendo conto di non essere alla sua disperata ricerca e posso lasciarmi coinvolgere da un film e condividere i sentimenti della protagonista senza per questo provare alcun tipo di invidia o autocommiserazione di fronte al finale che mi riporta alla realtà, inevitabilmente diversa da quanto appena finito di vedere.

Pur godendone, non ho bisogno dell’amore. Di scopare, magari, ma questo è un altro discorso.

 

Quindi io amo. Alla fine, accade che io a volte ami, ma non assomiglia esattamente a quanto credevo: è molto meno melenso di quanto mi aspettassi. Meno epico, volendo, e non certo soprannaturale.
Va così e lo trovo divertente.

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Una fine di un anno

Capodanno civile: ora dei resoconti ufficiali.
Sono stata brava, avrò un contratto da dipendente a tempo determinato della durata di 24 mesi, sono dimagrita di 12 chili (se la bilancia non dà i numeri), mi sono divertita abbastanza, ho fatto cose che mi hanno sorpresa e ho conosciuto persone belle. Ho imparato a squirtare e ho prodotto degli ipertoni decenti (ma devo ancora allenarmi in entrambe le cose).

Insomma, tutto bene.

Sarebbe divertente se il prossimo fosse davvero l’ultimo anno della Terra: potrei sforzarmi affinché le cose vadano ancora meglio, con questa scusa.

Potrei addirittura scopare…

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Riflessioni concentriche

Credo di avere molta confusione dentro: ho letto articoli, commenti, link, discussioni a riguardo, eppure ho ancora un nodo nel petto, una sorta di turbamento che mi impedisce di esprimermi chiaramente per prima cosa con me stessa.
Il mio problema non sono i fatti in sé, poiché quelli sono stati chiari si dall’inizio e la mia tendenza a voler capire le ragioni di tutte le parti in causa ha giocato bene le sue carte e mi ha dato modo, mentre me ne stavo volutamente distante, di osservare le vibrazioni, i cerchi concentrici che si sviluppavano attorno all’evento. Peccato che le increspature sulla superficie hanno, a loro volta, dato origine ad ulteriori reazioni: le ho viste tutte ma, a questo punto, mi sembrava che ci si trovasse così distanti dal punto focale che non riuscivo più a distinguerne le reali ragioni, facendo assumere al tutto tinte assurde e, devo confessare, preoccupanti.

Ciò che ho bisogno di risolvere, però, non è il putiferio che s’è scatenato, perché non sono in grado di fornire una soluzione a riguardo e, anzi, temo che una voce in più, allo stato attuale dei fatti, non aggiungerebbe molto (ammesso che io abbia la pretesa di poter fornire un contributo fondamentale alla discussione). Ciò di cui necessito ora è di tornare a guardarmi un po’ dentro, per riuscire a capire come mai la mia personale reazione (interiore) a quanto è accaduto sul momento è stata talmente forte da continuare ad amareggiarmi anche dopo giorni dal “fatto”.
Aggiungo che è per questo motivo che non ho intenzione di linkare nulla, in questo post: non mi interessa esporre minuziosamente i fatti, perché non sono l’oggetto di questa riflessione, se non in quanto “scatenanti” di una reazione interna che devo riuscire a sbrogliare, né rientra nei miei obiettivi aggiungere un bel po’ di benzina sul fuoco. Preferirei essere generica, rimanendo il più possibile neutrale nell’esposizione dell’accaduto.

Un giorno accendo il pc e finisco a leggere un post in un dato blog, che esprime una riflessione su come il fascismo abbia potuto ripresentarsi con la faccia pulita, con la citazione di link e nomi di chi ha aiutato, in varie forme, questo movimento a ritagliarsi uno spazio (di nuovo) nella nostra società.
Ci penso su; ragiono sull’importanza delle parole e atti, su quanto sia necessario soppesare quanto si dice o scrive e sull’inflazionatissima frase attribuita a Voltaire “Non condivido le tue idee, ma bla bla bla…”. Penso anche che, forse, quel post sia un po’ riduttivo: solo quelli? C’era dell’altro, c’erano degli altri. Non è solo chi ne parla a favore, ma anche chi, invece, volontariamente non dice nulla. Rifletto su cosa faccia io, effettivamente, per impedire al fascismo di espandersi, o mi riporto dolorosamente alla mente alcuni episodi in cui, invece di reagire, per paura, ho preferito tacere, lasciando correre alcune frasi o comportamenti che, invece, avrei dovuto mettere in discussione. E così su ogni cosa, non solo il fascismo… Insomma, spazio, lasciando che quanto ho letto diventi parte di me, o meglio, parta da me, per quella famosa legge della fisica quantistica (o era altro?) per cui il personale è politico.
Il giorno dopo sono ancora che rifletto -la mia digestione è molto lenta- e, nel bel mezzo di una complessa associazione di idee, mi ricordo di un nome citato proprio nell’articolo: mi sbaglio o conosco quella persona? Omonimia? Assonanza? Devo ricontrollare e così ne ho la conferma: ho chattato con lei proprio due giorni prima.
E’ stato in quel momento che è iniziato tutto: la brutta sensazione è cominciata da lì, con un “Ma come è possibile?”. Ho subito sentito l’esigenza di rallentare, leggere, riflettere, spulciare e arrivare a capire se non si trattasse di un errore (e da parte di chi, poi?). Purtroppo, però, le cose non vanno sempre come si spera e ben presto scopro che gli eventi, spesso, non viaggiano alla velocità di cui si avrebbe bisogno: quella stessa persona, avendo letto l’articolo, ha reagito in maniera piuttosto allarmata e la sua reazione ha dato origine, nel giro di poco, allo “scontro tra fazioni” che continua a rimbombarmi nelle orecchie e a non lasciarmi lo spazio per pensare.

Questi sono, più o meno, i fatti definiti in maniera stringata (anche un po’ riduttiva) per potermi dare lo spazio di scrivere lentamente una riflessione il più possibile completa.
Perché ci sono rimasta male? Perché questo senso di delusione? E, soprattutto, delusione verso quale parte, se la “colpa” risiede solo in una delle due?
Credo che sia importante partire proprio dalla prima domanda che è sorta spontanea: “Com’è possibile?”. Che, in realtà, stava a significare due cose:

1) com’è possibile che qualcuno che consideravo stare sulla mia via nel tentativo di perseguire i miei stessi obiettivi (o, comunque, molto simili), abbia potuto fare una cosa che considero assolutamente non condivisibili? E’ successo davvero? C’è stata un’interpretazione errata?

2) com’è possibile che chi ha scritto l’articolo abbia citato una persona con cui sicuramente era entrato in contatto, senza un tentativo di discussione? Insomma non sarebbe stato meglio parlarne, prima, in privato?

Questo era ciò che ho pensato sul momento, ma già qui un importante nodo viene al pettine: si tratta di una domanda posta nel mentre di un insieme di riflessioni e commenti condivisi con altre persone e che fa più o meno così “Solo perché si tratta di qualche compagn*, allora bisogna concedere dei trattamenti di favore?”.
Insomma, fosse stata una qualsiasi altra persona, mi sarei sentita così turbata e bisognosa di un momento di “confronto privato”? Ebbene, dannazione, no. Mi sono resa conto che, nella mia imperfezione, mi sentivo molto più propensa a concedere degli sconti a un’eventuale sorella/fratello. E accetto ogni critica a riguardo, perché so che questo è ancora un argomento insoluto. Purtroppo, mi rendo conto di procedere molto per “affetto”: so da me di non essere “politicamente matura” (e ho già avuto modo di dirlo) e questo si riflette anche nel modo in cui mi approccio a determinati argomenti e ambienti. Quando parlo di sorelle e fratelli, lo penso davvero, anche se si tratta di persone che magari ho incontrato una volta sola in vita mia e con cui ho parlato per cinque minuti. Sono troppo facile all’entusiasmo, nonostante cerchi di nasconderlo, è questo il problema. Di conseguenza, ricevere una delusione da qualcuno che è idealmente così vicino al mio cuore mi amareggia in maniera indicibile, tanto che fatico a crederci e, quando ormai il fatto è innegabile, ho la tentazione di mettere il tutto a tacere, per quella strana tendenza indotta a “lavare i panni sporchi in casa”, inculcatami da un’educazione particolarmente rigida. Allo stesso tempo, sento l’esigenza di avere subito spiegazioni, per riuscire ad entrare nell’ottica di chi erra, in modo da capire (e forse “comprendere” -badate bene all’etimologia stessa del termine) il suo punto di vista. Ecco, a questo proposito, io ho subito avuto la necessità di sentire le ragioni delle parti. Sono riuscita a farlo solo per una delle due, purtroppo (non ho interpellato personalmente nessuno, proprio perchè si stava scatenando, a mio avviso, un putiferio che mi metteva a disagio: mi sono limitata a leggere i vari comunicati e commenti), mentre per il resto ho dovuto sopperire alla carenza di notizie di prima mano con deduzioni e collegamenti logici, basandomi sulla mia esperienza e sul mio modo di agire. Ovviamente questo ha reso la riflessione ancora più personale di quanto già non lo fosse e, ormai, staccata dai protagonisti in sé.

La conclusione del mio ragionamento è stata:

– chi ha compilato l’articolo è stato coerente col proprio lavoro.

– allo stesso tempo, però, se io fossi stata citata in un post del genere, avrei provato grande imbarazzo e tristezza. Non so dire come avrei potuto reagire: forse avrei cercato di spiegarmi subito, forse mi sarei chiusa in silenzio per un po’ (così come mi è effettivamente successo pur senza essere coinvolta nella questione), forse mi sarei incazzata. Alla fine, comunque, il tentativo di comunicazione l’avrei fatto. Però, ripeto, qui si sta parlando di me proprio perché non ho modo di comprendere quale siano state le ragioni della seconda parte in causa -ed ora come ora neppure mi interessano, dato che tutta la situazione mi è servita per ragionare sui miei personali meccanismi di azione.

Quello che posso dire, però, è che davvero non capisco e non tollero lo sviluppo successivo di una sorta di guerriglia che mi è sembrato dilaniasse anche me e alla quale non sono riuscita a trovare una spiegazione. E’ stato, questo, il frutto del già citato incresparsi delle acque, ma in un luogo talmente lontano, dal mio punto di vista, rispetto a dove il sasso è caduto, che ha stravolto ogni cosa.
Adesso che la discussione (se tale si può definire, proprio per l’esacerbarsi dei toni) sta andando avanti, coinvolgendo altre persone e blog, io non sono più soltanto a disagio, ma anche disorientata e molto propensa alla rabbia: il fatto che non capisca quali movimenti sotterranei siano in corso, non fa che rendermi ancora più irritabile e mi viene voglia di urlare, perché non è concepibile che si colga una scusa qualsiasi per mettersi a criticare il lavoro di molta gente; il tutto, senza avere il coraggio di presentarsi di persona e utilizzare delle reali motivazioni, ma partendo da un’accusa che è grave e da un fatto che avrebbe potuto risolversi, invece, con una chiacchierata a viso aperto.

Ma io sono e rimango un’idealista, oltre che ingenua. E’ chiaro che sto cercando di migliorarmi in entrambi gli aspetti, ma per il momento non posso far altro che sentirmi amareggiata. Amara me, appunto.

 

Mi dispiace: sono giorni che tento di completare questa riflessione, eppure sento di non essere in grado di scrivere meglio di quanto appena fatto, anche se, dopo numerose letture, continuo a non trovare soddisfacente le parole che ho messo in fila qui.
Pubblicherò comunque, perché ormai non sono più in grado di spremermi meglio e mi sento talmente saturata da tutta la vicenda che sto sforzandomi di rimanere aggiornata, combattendo la tentazione di lasciar perdere tutto: mi viene difficile da pensare che vorrò scriverci altro su.
Pazienza: è già tanto che sia riuscita a confessarmi un paio di meccanismi imbarazzanti…

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Essere dee

Sono stremata da tutto questo fluire d’amore: lo sento usicre da me, abbandonarmi per andare nel mondo. Quante sconosciute sarei in grado di abbracciare stanotte, così, solo perché si trovano sulla mia strada, come se con loro stringessi a me anche il destino e l’eterna danza dell’universo?
Sento i miei polsi tremare, sempre più deboli: se ne va così la mia più grande benedizione, quella senza nome, priva di forma, che come rugiada si posa sul mondo, che come la notte avvolge ogni cosa.

Il mio cuore è talmente affaticato e gioioso che mi sento una regina; tra le mani stringo il tempo ed il mio sguardo è benevolo. Da dove io tragga questo flusso infinito è un mistero, ma intanto il mio amore scivola nei mari e tocca ogni costa, penetrando in ogni insenatura ed essere ovunque in ogni attimo è faticoso per me, che vorrei solo…

…solo…

…solo?

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Goccia a goccia

Secondo giorno del ciclo: il mondo è così bello e pieno d’amore che mi sento in diritto di reclamarne un po’ senza il timore di consumarlo. Potrei restare seduta ad osservare il cielo per ore, perdendomi nei miei pensieri, oppure distesa in un letto caldo a chiacchierare, avvolta da quella pace che si crea tra persone complici.
Invece mi sono solo fatta un bagno caldo con tanta schiuma, concededomi il lusso di giocarci come facevo da bambina, lasciandomi alle spalle i turbamenti di questi giorni. Forse, continuando su questa scia, potrei anche decidere di andarmene a letto presto, chi lo sa.
La verità è che ho così tanti pensieri per la testa, in questo periodo, che mi sento spaesata e la mia mente reclama un po’ di ossigeno. Quello che vorrei veramente fare è cambiare argomento per lasciar sedimentare i pensieri agitati; anzi, ancora meglio: mi piacrebbe abbandonare le redini della razionalità e sfidarmi al gioco della piccola chimica, permettere al corpo di parlare, mescolare odori e sensazioni, solo per vedere che effetto farebbe.
Ecco: sono al secondo giorno del ciclo, il mondo è bello, ma io di più e tutta la serena calma accoccolata dietro i miei occhi mi fa sorridere.

Vuoi giocare un po’ con me?

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Solo per stomaci forti

Scavando nel profondo, in ognun* di noi si possono trovare degli aspetti inquietanti o disgustosi. Per chi è meno fortunat*, questi si riescono a scorgere già a livello superficiale. Personalmente, non saprei dire a quale categoria appartengo e, di conseguenza, se sia necessario grattare solo un po’ o effettuare alcuni carotaggi per riuscire a provare il brivido dell’orrido in mia presenza.
So, ad esempio, di giocare molto sulle sensazioni di schifo: adoro le reazioni della gente di fronte allo humor nero o a quello scatologico, ma non sono in grado di dire se questo mi renda o meno disgustosa. E’ che mi piace scherzare! Eppure, a volte, le mie non sono battute: è solo che la gente non mi prende molto sul serio…

Ad esempio, mentre parlo di mestruazioni adoro riprodurre un’espressione maniaca e imitare Hannibal, quando risucchia l’aria tra i denti. E’ una cosa a cui tutti di solito reagiscono con una risata, preceduta da un “Ugh…” nauseato. La verità è che adoro le mestruazioni: sono affascinata dal sangue, dal suo colore, dalla consistenza. Potrei guardarmi le dita sporche per ore, giocherellare con i grumetti, lasciarli scivolare sul palmo della mano, premerli, tirarli, romperli…
Non so esattamente da cosa derivi questa fascinazione; il fatto è che non ho mai considerato le mestruazioni come una rottura, tranne che quando usavo gli assorbenti esterni ed era estate: la sensazione di caldo umidiccio era fastidiosissima e, avendo io un flusso abbondante, i frequenti cambi non davano che un breve attimo di sollievo. Tutto il resto dell’anno, invece, sopravvivevo benissimo e di certo il mio mood a riguardo era facilitato dall’assenza di dolore, se si esclude il fatidico primo giorno. Da quando uso la mooncup, poi, anche l’estate è diventata una passeggiata: niente sciabordii e nessun disagio. Inoltre la coppetta mi dà la possibilità di osservare molto più agevolmente il mio prodotto.

La verità è che il mestruo risveglia in me delle sensazioni molto forti, oserei dire ataviche: al suo “cospetto” sento i tamburi, percepisco una vibrazione bassissima che mi attraversa, mi viene voglia di perdere il linguaggio e dipingerci intere pareti di roccia, di colorarmici la faccia e partire per la battaglia, come se fossi io strega ed esso l’unguento in grado di farmi uscire dal corpo. Di diventare cannibale, come se le mestruazioni fossero i miei morti e, nutrendomi di loro, ne potessi assorbire la potenza.

Ecco, bere il mio stesso sangue mestruale è un’idea che mi ha sempre attratta. Ovviamente, nel caso mi fossi decisa a farlo, il gesto avrebbe avuto un significato “rituale” molto forte: tralasciando l’idea della potenza espressa poco sopra, avrebbe simboleggiato la completa accettazione di tutti gli aspetti della mia personalità, di ogni pensiero e azione. Non solo, lo collegavo anche alla capacità di provvedere, metaforicamente parlando, al mio nutrimento: sarei bastata a me stessa (tralascio di riportare ora le paranoie sul vuoto interiore che a volte ho provato/provo).

Lo scorso mese ero “reduce” da un’esperienza bellissima, quel famoso Fem Blog Camp di cui ho già parzialmente narrato e che ha rappresentato per la sottoscritta il contatto con una nuova me. Non so esattamente quali corde siano state toccate in quell’occasione, però è successo che l’idea di compiere quel rituale si è ripresentata fortissima, come fosse un’esigenza improrogabile.
E così l’ho fatto.
E’ stato strano, devo ammetterlo: mi sono rilassata, ho tolto la mooncup, ho guardato attentamente il liquido rosso e poi ho avvicinato la coppetta alle labbra. Ho lasciato che la sensazione di calore e la vischiosità mi riempissero la bocca. Non è stato facile, perché il sapore ferroso del sangue mi era duro da sopportare, ma ho resistito. Ho giocato con le parti grumose, spostandole dentro la bocca con la lingua, contro e tra i denti, spingendole sul palato lasciandole scivolare in fondo, quasi ad inghiottirle e, alla fine, ho chiuso gli occhi, sorriso e buttato giù.
Da brividi: il gusto era orribile (sarà capitato a chiunque di assaggiare il proprio sangue: non è poi tutta ‘sta cosa da gourmet), ma mi sentivo euforica. L’avevo fatto davvero! Sfondando un tabù, avevo divelto violentemente una barriera che non si sarebbe più formata e mi sentivo stranissima: ero esattamente dentro di me, coscientemente centrata, eccitata da morire per aver sfidato un divieto la cui disobbedienza mi avrebbe esposta al biasimo della società. Un gesto così piccolo ed insignificante, completamente innocuo, mi faceva sentire come una scalatrice che raggiunge una vetta inviolabile (eppure è impossibile che io sia l’unica al mondo ad averlo fatto!).

E allora, tornando all’inzio di questo post, quanto narrato mi rende una persona disgustosa? So che agli occhi di molti potrei esserlo, ma so anche che potrei venire giudicata allo stesso modo solo perché ho fatto sesso “nella maniera sbagliata”, perché, per puro divertimento, ho baciato persone che a malapena conoscevo, perché una volta ho provato a mangiare delle formiche (una lunga storia: volevo diventare entomofaga…), perché non mi piace depilarmi, perché sono grassa e un sacco di altre cose che non sono altro che costruzioni culturali più o meno fortemente radicate nella società in cui vivo.
Ma allora, forse, l’istinto di scherzare col e sul disgusto non è altro che il desiderio di prendere per i fondelli e “desacralizzare” tutte quelle strane gabbie che ci costruiamo attorno o nelle quali ci lasciamo imprigionare. Perciò se il riso, come a volte mi piace immaginare, forma una crepa nei muri delle nostre menti, allora ben vengano tutte le oscenità, le impudicizie, le battute non solo sconce, ma anche “scorrette”, ossia quelle che scavano nel pozzi bui dove a forza releghiamo ogni emozione non razionalizzabile e riescono ad estrarre le risate di pancia, sguaiate e senza ritegno.

Ma sì, ridiamo. Ridiamo di gusto del disgusto. E ridiamo di noi, che di strada ne abbiamo ancora da fare, per migliorare questo mondo.

 

(Questo potrebbe diventare un serissimo programma politico)

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Le feste invernali

A me, da piccola, Santa Lucia faceva paura: una tizia con gli occhi in mano sarebbe entrata in casa mia (pure col suo asino!), avrebbe avuto accesso ad ogni locale e, in cambio di arachidi e mandaranci, avrebbe lasciato dei regali. I regali mi andavano benissimo, sia chiaro, ma non riuscivo a sopportare il terrore dell’idea che mi scappasse la pipì nel bel mezzo della notte e che la santa, ferocemente incazzata perché l’avevo scoperta (non so bene perché dovesse arrabbiarsi: d’altra parte era stata lei ad entrare in una casa che, santo cielo, era chiusa! Sin da piccola sapevo benissimo che questo era un reato!), mi avrebbe costretta a guardare le sue orbite vuote e sanguinolente e i suoi occhi, staccati dal resto del corpo; se fosse stata veramente sadica (e nella mia testa di bambina non stentavo a credere che potesse esserlo) me li avrebbe persino fatti toccare. Non potevo sopportare l’idea. Non era mica come il topolino dei denti! Quello sapevo che viveva legittimamente in cantina ed ero io che andavo a bussare alla sua porta per lasciargli il dentino. Se poi non voleva darmi niente in cambio, semplicemente il dente rimaneva lì (ma non è mai successo: il mio topolino deve avere un sorriso smagliante!): era un baratto tranquillo, quasi una mutua assistenza, e nessuno si incazzava o s’inventava vendette splatter.

Invece in qualche particolare giornata dell’anno accadeva che figure losche e disgustosamente ferite entrassero in casa mia. Ok, Babbo Natale non era ferito, però quell’anziano signore aveva anch’egli fama di alterarsi, se fosse stato scoperto. La Befana, poi, non era moribonda -anzi, piuttosto arzilla, per l’età che aveva!- ma era sicuramente stata resa incattivita dal tempo…
Il periodo peggiore per me, però, era la Pasqua. Lì non c’erano neppure i doni a mitigare la presenza del personaggio più orribile che la mia fervida immaginazione fosse mai riuscita a vedere in ogni minimo particolare: Gesù.
Io conoscevo benissimo la sua storia: come la maggior parte (sigh) dei bambini italiani sono stata cresciuta da cattolica e la vita di questo personaggio mitico non aveva segreti per me. Nasceva nel periodo di Babbo Natale, poi scappava in Egitto, faceva vita da latitante -ma da bravissimo bambino che aiutava sempre il papà Geppet…Giuseppe, Giuseppe!- e ricompariva adulto, stupendo tutti con stranissime magie, scegliendo poi di uscire dalle scene nella maniera più idiota dell’universo (pur se eclatante!): lasciandosi prendere e facendosi torturare crudelmente, fino a morire dopo lunga  agonia inchiodato ad una croce. Non contento di ciò, però, a Pasqua lui ritornava, ma mica tutto intero! No: con i buchi ed il sangue, tanto che San Tommaso era costretto a ficcare la sua mano dentro la ferita per punizione di non aver creduto alla resurrezione. Ogni anno. Lo faceva gni stramaledetto anno da quella famosa primavera del 33 d. C.

Fu così che iniziai a domandarmi in quale modo si potesse dimostrare di credere e risultare sinceri, così da sfuggire alla “prova del buco”. E se Gesù avesse pensato che non gli credevo abbastanza e avesse voluto punirmi? O se avesse semplicemente avuto voglia di far fare un ripasso veloce all’umanità ricomparendo davanti ad essa? Io non lo volevo vedere Gesù, tutto bucato e sanguinante. Io non lo volevo vedere! La notte del sabato prima di Pasqua dovevo essere accompagnata nelle parti buie della casa: sia mai che fossi stata io la prescelta (sì, egocentrica sin dagli esordi).
Raggiunta l’età della ragione (o qualcosa di molto simile), mi sono arrabbiata: avevo già analizzato la religione come insieme di simboli e non come cronaca di fatti realmente accaduti (checché ne dicano i vari predicatori) e, appunto, poiché il simbolo è un elemento tanto complesso, mi sono chiesta che bisogno ci fosse di inculcare nella testa certe immagini a bambini che avrebbero potuto interpretarlo unicamente in maniera letterale. Sicuramente l’abilità di riconoscere il simbolo avviene nel tempo e bisogna esserne educati, perciò abituati ad averli sotto gli occhi, ma è davvero necessario partire subito in quarta? L’educazione -anche a scuola- avviene per gradi. Alle elementari la storia è fatta quasi sempre di “buoni Vs cattivi”, per poi approfondire, ribaltare visioni, analizzare ragioni politiche mentre si procede nello studio. Ma potrei anche domandarmi, ad esempio, perché si fa educazione sessuale solo ad una certa età (se si fa!), ma si espongono le menti degli infanti a immagini e narrazioni truculente senza alcun problema?
Io avevo paura: non lo dico per dire. Sono stata l’unica al mondo? Mi rifiuto di crederci e questa è una delle tante ragioni per le quali, alla fine, ho chiesto lo “sbattezzo”.

Però ho divagato un sacco: volevo parlare di Santa Lucia, in realtà, e di come, crescendo, le cose acquistino nuove sfumature: adesso lei mi piace, perché, nella mia testa, è tornata ad avvicinarsi all’archetipo che l’aveva originata, ossia la forza dell’inverno che sta per sopraggiungere, l’energia non ancora completa che sta per avviare un nuovo ciclo. L’impossibilità di vedere, e quindi di comprendere appieno il mondo, la rende un’entità ancora in fieri; allo stesso tempo la sua “prova” consiste proprio nel fare a meno della vista per riuscire a cogliere l’essenza delle cose e ad esprimersi al meglio per completare la sua maturazione che si esplicherà nella trasformazione nell’archetipo-madre che segue a breve (la Madonna, per chi è abituato ai discorsi cristiani), ossia la potenza che diviene atto.
Questo è bello. Questo è interessante. Questo dovrebbe essere la religione, per chi ne avesse bisogno: tentativo interpretazione della realtà e della mente umana, gioco alla decostruzione del mito che diventa allenamento per la decostruzione di tutto quello che è “discorso”, critica di tutto quanto è imposto o che sopravvive per l’inerzia dell’ “è sempre stato così/è così che vanno le cose”.

Be’, tutto questo giro per arrivare al punto che, se ieri notte fossi andata in bagno e avessi visto Santa Lucia, sono sicura che non si sarebbe incazzata. Adesso lo so e non ho paura.

Sorry for the pippa (che pubblicherò senza rileggere) 😉

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Così io, finalmente, Vidi

Io ci ho provato. Ogni volta che me n’è venuta voglia, ci ho provato. Con costanza, con dedizione e molto affetto verso me stessa, anche quando fallivo. Ma non ho mai mollato e ora sono qui a narrare la mia storia, una vicenda fatta di fatica, di atti eroici e di un finale che ha stupito me più di chiunque altr*…
[dal manoscritto dell’Oasi di Amarame, regione d’Amària]

La testimonianza che seguirà è narrata in un antico e preziosissimo rotolo ripescato dai flutti del Mare Menstruum, un lago di notevole estensione e profondità situato nella regione d’Amària. L’autrice, anonima, lo scrisse intorno al XXI secolo, presumibilmente per una comunità di affini, affinché potessero continuare a coltivare la speranza e a lottare per i loro sogni.
Alcune parti sono mancanti, ma il discorso complessivo resta abbastanza chiaro.
……

Mentre vagavo nei boschi sacri alla dea Diana, m’accadde di scorgerla presso una limpida polla (ben presto avrei scoperto che non si trattava di semplice acqua, ma tale la credetti sul momento), attorniata da molte ancelle e discepole, i cui volti erano illuminati dalla sete di sapere. Ella era bellissima, seduta tra loro come una pari e da tali le trattava tutte, dispensando la sua conoscenza e concentrandosi soprattutto sui metodi affinché ognuna potesse prendersi cura della propria fonte della Vita Eterna. Mi avvicinai intimidita e paurosa a quelle magnifiche donne, ma ben presto scoprii che nessuna aveva intenzione di cacciarmi, anzi: venni accolta da sorrisi cortesi e parole di sorellanza e in quell’occasione compresi quanto dolce sia la condivisione dei saperi. La dea, intanto, tra curiosità mista ad espressioni incredule, ci rivelava che ognuna di noi -pur se misere mortali- poteva ambire a far fluire le acque della magnifica fonte ed, anzi, ci indicò il cammino da compiere per coltivare quella naturale, sebbene repressa abilità.
Alla fine della giornata io sapevo che quella era la mia via. Ormai avevo visto la Luce e la mia vita sarebbe stata dedicata alla ricerca di quell’acqua miracolosa, un esempio della quale si trovava proprio davanti ai miei occhi: la polla di Diana non era stata riempita da altri che lei. Per poco non gridai al miracolo, rendendomene conto, e fui colmata di un gioia indicibile.
[…]
Ritornando ai miei luoghi natii, non persi tempo: da zelante discepola iniziai a diffondere la novella senza badare alle prime reazioni di scherno. Dopodiché, concluse le parole, mi rinchiusi in isolamento per ben cinque giorni: mi attendeva, infatti, la Prova. Concentrata e purificata nell’animo, dedicai al mio corpo, spirito e mente ogni attenzione. Non mi lasciai distrarre e tenni sempre a mente le parole di colei alla quale mi ero votata. Eppure fallii il primo tentativo. Fallì anche il secondo e così il terzo. Il quarto mi sembrò di percepire qualcosa, nelle radici della mia terra feconda, ma avrei potuto benissmo sbagliarmi. Al quinto, quasi demoralizzata, accadde qualcosa di inaspettato: l’isolamento venne interrotto da un segno divino. Fu infatti convocato un incontro tra affini per discutere della Prova, dell’acqua della Vita Eterna e per infondere coraggio in tutte coloro che desideravano ottenerla, ma ancora non vi erano riuscite. Qualcosa si stava muovendo, nel mondo: venivano narrate le proprie esperienze, le sensazioni, confrontati i metodi, avanzate ipotesi e donati suggerimenti. A fine serata, mi sentivo colma di speranza e decisi di affrontare nuovamente il rito.
[…]
E fu così che, poco dopo la mezzanotte, all’ora sacra alla mia divina mentore, l’acqua sgorgò, spruzzò, bagnò e scorse gioiosa.
[…]
Ora io posseggo il Dono, sorelle. E’ successo di nuovo, oggi, e so che succederà ancora e sono certa che ognuna di voi potrà Vedere ciò che io Vedo. Vi lascio questo scritto affinché non perdiate la speranza. Guardate dentro di voi.
(Non troppo in profondità e premendo ritmicamente sulla parete anteriore)

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Eiaculazione femminile, ovvero let’s squirt together

Come accennato qualche post fa, Sabato 3 Dicembre ero allegramente a Bologna a godermi un workshop sull’eiaculazione femminile by Diana.
Non conoscevo l’argomento, se non in maniera del tutto superficiale: avevo incrociato qualche video e articolo apparsi su internet, ma niente che riuscisse a descrivermi meglio come funzionasse o perché. Avevo -lo confesso- relegato il fenomeno in un angolino della mia testa, non avendolo mai sperimentato, classificandolo sotto la voce “Ma tu pensa, esiste anche questo!”. Finalmente Diana è riuscita a diradare le nubi dell’incertezza con un interevento di “Squirting for dummies”, condividendo così le sue conoscenze e riflessioni.

Ad esempio, non sapevo che tutto ha origine dalla ghiandola di Skene, una misteriosa presenza ignorata dalla medicina in quanto, contrariamente alle ghiandole di Bartolino, artefici della lubrificazione, non ha alcuno scopo all’interno della riproduzione. Eh, già, perché a nessuno interessa il funzionamento dei genitali femminili, se non per la parte che riguarda la produzione di nuovi soldati per la patria (e qualche altra incubatrice di carne). Questa simpatica ghiandola -tralasciando il fatto che porta il nome del suo scopritore, poiché qui si aprirebbe l’infinito discorso del corpo della donna come terreno di conquista- ha la capacità di riempirsi di liquido ed espellerlo durante l’eccitazione sessuale (prima, durante e/o dopo l’orgasmo -quanta grazia!) e tale liquido ha la stessa composizione di quello secreto dalla prostata maschile.

Purtroppo c’è da dire che non se ne parla molto e spesso è un evento vissuto con imbarazzo dalle stesse donne, proprio per l’ignoranza che vige sull’argomento: dato che la sensazione che accompagna l’eiaculazione è simile allo stimolo della pipì (dovuto alla pressione della ghiandola piena sulla vescica), può capitare che il liquido venga scambiato per urina; c’è da aggiungere, inoltre che, a volte, i dotti della prostata femminile sbocchino nell’uretra, con conseguente generazione di confusione e sensazione di vergogna. Non bastasse questo, gli stessi ginecologi ignorano (volontariamente o meno?) l’eiaculazione femminile, diagnosticando problemi di incontinenza a coloro che vi si rivolgono per chiedere lumi su cosa stia succedendo. Ad esempio, sono rimasta impressionata dalla testimonianza di Diana sul suo incontro, durante uno dei suoi vari workshop, con una donna a cui la ghiandola di Skene era stata asportata proprio perché le era stato diagnosticato questo imbarazzante problema idraulico; la semplicissima e piccolissima operazione chirurgica che ne era seguita era stata proposta come soluzione definitiva a questo sgradevole inconveniente. Insomma: corpi alla mercé della scienza (se mai vi fossero altri dubbi).

Si è ovviamente parlato anche di come “allenarsi” ad eiaculare, perché male non fa e masturbarsi o fare un po’ di esercizio in compagnia è divertente. Praticamente è come aggiungere una succosa ciliegina su una magnifica torta; il tutto, sia chiaro, senza spirito agonistico e senza conseguente sentimento di frustrazione se le prime volte non succede niente, perché: Hey baby, sei venuta! Praise Orgasm!

Tagliando corto (ma è meglio se nella pratica la si fa lunga: oh, sì, lunghissima, ché è meraviglioso!):

  • occorre stare rilassate e sfuggire ad ogni tentazione che svii verso la contrazione.
    Purtroppo a molte viene istintivo contrarsi, un po’ perché si ha la sensazione che si faccia prima, un po’ per indubbie pressioni sociali che portano la donna a tentare sempre di “stare al suo posto”, contenersi, non occupare troppo spazio, sprecare troppa aria e godere troppo smodatamente.
  • stimolare con dita, pugno, dildo, varie ed eventuali la parete anteriore della vagina.
    Ecco, sì, quella del famoso “punto G”. Solo che non è un punto, bensì una ghiandola intera. Se la sensazione che si prova è quella di dover fare pipì, allora la strada è quella giusta.
  • procedere a proprio gusto fino al momento topico e, arrivando all’orgasmo, ricordarsi di nuovo di non contrarre, ma, anzi, di spingere.
    Di nuovo: qui c’è da godere, perciò al bando ogni pudore (soprattutto se si è sole): spingendo, anche se sembrerà di stare per urinare, si potrà dare il via all’eiaculazione.
  • ripetere ad libitum.
    Sia che riesca, sia che non succeda nulla, c’è da ammettere che è stato divertente. Niente vieta di rifarlo e quindi..si torna al primo punto!

Un’altra volta vi racconterò come mi sono strappata un muscolo della schiena sperimentando la tecnica (che devo ancora affinare): credo inserirò questa narrazione in una nuova sezione che chiamerò “Sì, io sono una masochista e non mi pento”.
Anzi, adesso che ho finito di scrivere e che la schiena è quasi del tutto a posto, quasi quasi…

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Le cose che avrei voluto dirvi

Ci sono cose che non ho mai detto per svariati motivi (ma il principale è sempre stato la paura -delle reazioni altrui, di guardarmi in faccia, dipende…) e mi sono rimaste in gola, amareggiandomi spesso i pensieri. Allora forse dovrei farlo ora. Pensare attentamente a quelle persone e lasciare andare il tutto:

– Non ti amo e, a dire il vero, non sono neppure attratta da te. Mi sento soltanto molto sola e tu sei l’unica lesbica che conosca. E poi ho troppi anni, mi dicono, per non aver ancora baciato, perciò con te ci provo e maschero il tutto con la coltre di sentimento che mi hanno insegnato essere l’unica giusta ed accettabile. Quindi, sì, ti ho mentito e sto mentendo anche nel dimostrarti una qualche attrazione. Non mi piace neppure come baci. Mi sembra che non ci siano le misure giuste, non capisco come tu stia muovendo la lingua e perché tu lo faccia così velocemente. Il mio primo bacio è stato una schifezza, cazzo! Eppure, adesso che mi dici che hai trovato un’altra che è più carina di me, vorrei anche dirti che ti odio, perché ti sembra il modo di dirlo? So che è colpa mia, che avevo troppa fame per rifiutare un qualsiasi boccone, ma tu, lasciatelo dire, sei stata proprio insensibile. Avrei dovuto mandarti a fare in culo, ecco cos’è. E, invece, ho salvato tutte le mie meravigliose apparenze di dolcissima ragazza con un discorso strappalacrime in cui credevo di credere. Non posso dire di aver mentito del tutto, è vero, però, adesso che mi guardo bene dentro, di te mi fregava solo perché eri qualcuno, che era molto meglio di nessuno.

– Io non so se mi sono veramente innamorata di te. So che è bello baciarti e tenerti per mano. Hai un buonissimo odore e vorrei non dovermi mai staccare da te. Però non credo ci sia altro. Non so neppure cosa sia quest’ “altro”. Non so che forma abbia e, immagino, ci conosciamo davvero da poco per poter arrivare a discutere di certe cose. Non ho abbastanza fegato per ammetterlo, però, e quando mi dici che non sei innamorata di me ci rimango male perché penso solo che “Ora come farò?”. Penso a me soltanto, al sopravvivere senza la sensazione di pienezza dopo quei baci e piango tantissimo, però so di capirti e persino di darti ragione. So che devo esserti grata per non aver permesso che quanto c’era di piacevole si trasformasse in una palude e mi dispiace di non averti mai ringraziato, prima. Allora grazie di avermi lasciata. E l’hai fatto davvero dolcemente, con una sensibilità unica e con una bellissima lettera. Grazie.

– Tu sei pazza. Credo tu sia malata e me ne dispiaccio, ma renditi conto che, così come ti comporti, non è sano. Ho provato a tappare i tuoi buchi, convincendomi che fosse la strada giusta e che l’instinto da crocerossina fosse innamoramento, ma la verità è che stavo aiutando solo l’immagine che ho di me, salvo poi rendermi conto che ti ho dato troppo, per quello che meritavi. Sono un’egoista, è vero: pensavo solo a prendermi un po’ di rassicurazioni e di questo dovrei scusarmi, perché, in fondo, ti ho usata anche io. Sono anche molto brava ad autonconvicermi della purezza dei miei sentimenti, comunque, perciò non credo di averti mentito del tutto. Probabilmente neppure tu, ma, credimi, adesso so che è stato un sollievo finire quella mezza cosa che stavamo tentando di mettere in piedi: mi sarei lasciata mangiare viva senza fare neppure una piega, pur di illudermi che stavo benissimo (perché “essere con qualcuno” è ancora, purtroppo, l’idea fissa di bene che naviga nella mia concezione del mondo). Forse dovrei ringraziare anche te, ma la verità è che ti ricordo con un senso di disgusto e mi chiedo fino a che livelli la mia disperazione sia in grado di trascinarmi. E ora mi sento stupida ad aver pensato di provare qualcosa per te.

– Senti, la verità è che non è “una persona” a trovarti luminosa. Cioè, non un’altra persona: sono io. Ti ho vista per un attimo e sono rimasta rapita, credo dai tuoi occhi. Per dei minuti buoni non sono riuscita a far altro che guardarti e a sorridere dentro e fuori perché la giornata sarebbe stata meravigliosa, se iniziava con queste premesse. Solo che avevo paura di dirtelo, avevo paura che una tua reazione negativa a questa confessione avrebbe rovinato tutta la gioia che ho provato fino a quel momento, facendomi sentire indifesa, esposta e molto sciocca. Avrei voluto provarci con te, trovare un modo per parlarti, ma qualsiasi goffo tentativo è fallito e, in realtà, mi ci sono proprio sentita, indifesa, sciocca ed esposta. Vabbe’, ormai l’ho superata.
Ah, e hai delle bellissime mani: non hai idea di che fantasie io abbia fatto su quelle mani…

– Ti amo. La verità è che ti amo, oppure che ti ho amata. Anche se non so definire che cosa sia l’amore, ormai so che la realtà dei fatti è questa. Per quanta rabbia io abbia provato, so che per degli interminabili istanti, io sono stata veramente me e nel mio essere in contatto con quella parte così profonda, io ti ho amata. E dato che l’eterno non ha un modo per essere misurato ed un secondo è infinito, io ti amo ancora e ancora ti sto amando. Non lo so cos’è successo, però ti amo. Avrei voluto dirtelo mentre ti guardavo negli occhi, mentre venivi, mentre venivo io, in qualsiasi momento. Mi dispiace di come sia andato a finire il tutto, ma, ormai, anche se a volte mi manchi e ti penso, ho accettato il corso degli eventi. E quell’attimo è stato un regalo prezioso.
Spero che tu ti ricordi sempre di essere bella: io, per dirti, ti avrei guardata per ore e mi si stringeva il cuore quando dicevi che eri troppo vecchia e cadente per farti ammirare. Non l’ho davvero mai capito e mi faceva quasi male che mi privassi di quello spettacolo, come se volessi mantenere una certa distanza da me.

– Oddio, adesso amo anche te e mi mandi in confusione gli ormoni. Forse è il tuo odore, quello che non percepisco razionalmente, forse è solo l’impatto della tua personalità. Forse, in realtà, non ti amo, ma mi riempi di una sensazione così gioiosa che mi sembra ancora di essere profondamente me. Non hai idea di quanto vorrei giocare con te, come un orso in primavera: correre sui prati, rotolarci, fare la lotta. Sesso? Oh, sì, magari! Magari, davvero, ma ridendo tantissimo, ti prego! Sento che più ti guardo, più qualcosa, nel mio cervello, si crepa e rischia di frantumarsi e la distruzione non è mai stata così piacevole per me, che, istintivamente, invece, conserverei tutto nell’immutabilità. Per favore, giochiamo: rincorrimi! Fatti prendere! E poi lasciami una pausa stupita: guardami! Mi assaggio le mani, la consistenza della pelle, mi tocco il viso, come fossi appena nata e cercassi di riconoscere la mia essenza, mentre sento dentro di me il gorgoglio di un corso d’acqua vivace e limpido. Dimmi qualcosa di assurdo, al di fuori delle convenzioni sociali e lasciati rispondere per le rime.
Oh, se solo avessi il coraggio di farlo davvero: di essere sincera senza la paura che mi fa seguire le regole! Allora ti direi che ti amo proprio, ma per un secondo soltanto, e non ha quel sapore di miele romantico, bensì la consistenza di una doccia fredda in estate e di quelle cose che poi ti fanno venir voglia di andartene per il mondo da sola, perché ormai non hai bisogno di nessuno che ti delimiti per farti avere un’idea di chi puoi essere o non essere. Praticamente ti lascerei, da quanto sento di amare te e quello che rappresenti.

– Oh, ciao! Aspetta, aspetta: sorridimi ancora. Ma sai che ti scoperei? Che ti guarderei dritta negli occhi e ti scoperei, perché mi incuriosisci da matti. E amo anche te, amo quel pezzo di te che è entrato in contatto col mio stupore. E ti scoperei per vedere come vieni (la sola idea mi riempie di formicolii il corpo!). Che carina che sei, seminuda e a tuo agio, così carina che mi fai sete.

Credo di aver finito.
Mi rileggo. Mi sembra di essere mille persone e tutte loro, probabilmente, sarebbero state meglio se avessero avuto l’opportunità di camminare fiere nel mondo, senza i miei tentativi di nasconderle per “darmi un contegno”.
Be’, da adesso in poi cercherò di lasciare loro un po’ più di spazio: non sia mai che riesca finalmente a vivere un po’…

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