Ecco, amo Regina Spektor

Questo è il resoconto preciso e puntuale del confuso scorrere di emozioni che mi ha travolta in questi giorni. Trattando di sensazioni e sentimenti, precisione e puntualità, contrariamente a quanto appena affermato, saranno estremamente carenti. Ci addentriamo, perciò, in un mondo di incoerenza a tinte forti (io non vedo l’ora!).
Sottolineo anche che tutto quanto successo Domenica 22 Luglio è stato vissuto dalla sottiscritta in una perenne trance amorosa. Ogni cosa, vista o percepita in altro modo è sicuramente successa, ma forse non propriamente come descritta qui sotto.

22 Luglio 2012, Berlino. Concerto di chiusura del Tour di Regina Spektor (Регина Ильинична Спектор). Lei è bellissima, una gigantessa e sono completamente immersa nella sua voce.

STOP
Facciamo qualche passo indietro.

2006, alla radio ed in TV. Fidelity: che canzone strana, è allegra e, da quel poco che percepisco, amara, quasi nostalgica. E originale. C’è quel “a-a-a-a-ah” lì in mezzo che ha qualcosa di fresco e mi fa muovere la testa. Carina. Lei ha la bocca grande ed una fisionomia strana che -ammesso che importi qualcosa- non so se mi piace oppure no.
Però non ricorderò mai un nome così difficile… La profezia si avvera facendomi dimenticare, negli anni, la canzone, la cantante e qualsiasi riferimento a entrambe per molto tempo.

Febbraio 2012, davanti al PC. Non so come, non so perché, mi ritrovo a pensare a Fidelity e ho voglia di riascoltarla. Finisco per reperire tutto l’album, Begin to Hope ed inizio ad ascoltarlo, rimanendone fulminata. Ci sento qualcosa di originale, che non avevo mai sperimentato prima. C’è…c’è…c’è che lei fa i rumori “brrrrr” “o-oh” “aaaah” che sembra quasi me quando non so le parole: infantile e, contemporaneamente, poetico (oltre che sicuramente più intonata della sottoscritta). Mi sfrigola l’ombelico: provo il desiderio di ore e ore di loop. Mentre l’ascolto, cerco una sua foto, per capire di chi mi sto infatuando. E’ lei! Ha sempre quella bocca grande, solo che, adesso, è bellissima ed io lo so. Il video stesso di Fidelity è un distillato di pura gioia. Inizio a vivere, pian piano, sul ritmo di quelle canzoni e lo voglio dire a tutti.

Metà Marzo 2012, casa mia. Un piccolo pacco viene consegnato a casa mia dal postino. Conosco la mittente: una cara persona che non ho mai incontrato, ma che è sempre stata gentilissima e che già una volta mi aveva spedito un regalo (non ho mai ricambiato, ora che ci penso: dovrò provvedere). La mia gioia nello scoprire che all’interno c’era l’intera discografia di Regina è ancora impressa vividamente nei miei ricordi. Non aspetto un secondo: la musica parte. E’ proprio lei, la riconosco! Santo cielo, ma che…che spettacolo! Da quel momento il poi non ascolto altro e vivo il silenzio in una placida sensazione di astinenza.

30 Marzo 2012, al PC. Dopo giorni di overdose, fatta anche di scambi di interviste e commenti su “Ma quanto è dolce?”, “Ma quanto è brava”?, “Ma che persona stupenda sembra?” io e l’amica generosa che non ho mai incontrato ci diamo appuntamento per guardare insieme (ognuna dal suo pc) i DVD del concerto di Londra del 2009. 3…2..(“Lo sai che alla fine della serata comprerai il biglietto per berlino sì?” [cit.])…1 VIA, no aspetta, non siamo coordinate, ripartiamo, fai pausa un attimo, tu cosa vedi? Ok, sincronizzate!
E’ un delirio: ad ogni canzone lei diventa più bella, sempre più brava e i nostri commenti ci montano a vicenda come la panna. Alla fine sono ridotta ad una schiuma soffice e sognante e, in preda all’amore più profondo. Il biglietto è mio.

22 Luglio 2012, Tempodrom di Berlino. Ce l’ho fatta. Sono entrata e sono in seconda fila. Mi stupisco del fatto che non ci fossero già chilometri di persone in attesa quando sono arrivata, ma va benissimo. Vedo il microfono dove canterà, il piano, la batteria col suo nome; ho gli occhi spalancati dalla gioia, a volte tremo, a volte rido da sola, non riesco a mettere in fila due parole e, quelle che pronuncio, sono sballate nell’ordine delle lettere. Ho sete da morire e mi fottono 3 euro per un’acqua ghiacciatissima che mi farò bastare per tutta la serata. Ma sì, chi se ne frega: tanto after her comes the flood e io posso smettere di esistere.
Dopo la noiosa parentesi di Only Son (che pare essere suo marito -sì, un colpo al cuore!), l’attesa si fa solida; respiro fumo d’ansia, annaspo in una palude di nervosismo e poi…lei. E’ un delirio. E’ bellissima. E’ così vicina. Cammina come una scolaretta sul palco della recita. Si siede al piano e dice qualcosa di tenerissimo (voglio specificare che ogni cosa che dirà, da ora in poi, sarà definita o sarà intesa come “tenerissima”) su come sia entusiasta che il saluto tedesco e quello inglese si assomiglino tanto, così, adesso conosce almeno tre parole nell’idioma teutonico. Ci lascia interdetti perché, invece di spiegarci quali siano le altre due parole, attacca a suonare. E la cosa mi fa ridere da morire. Poi, però, la risata si spegne, rapita dall’ammirazione. La sua voce, così piccola quando parlava, diventa la SUA voce. Sembra in trance e ci spinge tutti giù e su sulle note. Durante tutta la serata ho avuto la sensazione di nuotare nella sua musica, o dentro di lei. Ero in estasi. Era come una ferita da cui sgorgava amore puro e quando smetteva di cantare e ringraziava, veniva voglia di abbracciarla forte, anche se diceva cose stupide (sì, adoro quando fa la stupidina!) sul fatto che si è lavata i capelli per noi e che non lo rifarà più perché il risultato l’ha delusa tantissimo. Aneddoto: sono morta quando, alla richiesta dal pubblico di una canzone specifica, lei si è giustificata scherzosamente dicendo che non sapeva se se la ricordava, in quanto il suo cervello non è grande. Un “Ooooooh” di tenerezza degli spettatori viene tranquillizzato con un sospirato “It’s ok. Size doesn’t matter”. Cosa si può dire di una donna che parla così, se non che è stupenda?
Provo a fare delle foto, ma mi vengono tutte malissimo: forse è l’emozione, forse è che non voglio guardarla attraverso un obiettivo, ma voglio che mi rimanga impressa nella retina per sempre, così com’è, con gli occhi chiusi, l’espressione concentrata e la percezione precisa di quanto le stia piacendo quello che fa. Forse è solo che faccio delle fotografie di merda sempre…ma mi piace pensare che fosse a causa di tutta quell’energia che mandava in tilt le apparecchiature moderne.
E poi il concerto finisce. La gente si alza in piedi e tutti avanziamo verso il palco. Dopo aver scavalcato le sedie davanti a me con un gesto atletico irripetibile in condizioni prive di adrenalina, mi ritrovo ancora in seconda fila, ma più vicina. E’ il momento del bis. Lei esce. Quanto è bella. Ma è reale? Canta altre tre o quattro canzoni, credo. Stupende. Ad un certo punto ne fa una che adoro stando in piedi praticamete davanti a me. Io ballo sul posto come una sciocchina, canticchiando e muovendo gli indici ad imitare una batteria ed è in quel momento che i suoi occhi si posano su di me. Mi sta vedendo, mi sta proprio vedendo e ne sono sicura perché, forse perché sono davvero buffa in quello che sto facendo o perché inizio a sorridere nel ricambiare il suo sguardo azzurrissimo, anche il suo sorriso prende ad allargarsi. Sembra un’eternità. Gli occhi le si stringono -non l’avevo ancora vista fare così! Oppure sono solo io che mi illudo- e passano dei secondi interminabili (direi 4, a naso, sempre che sia possibile dare una misura alla pura emozione); mi sta guardando! Poi l’incanto si spezza e lei si dirige altrove, lasciandomi la sensazione stranissima di esistere, di aver acquisito un certo grado di realtà, per quanto sia un’espressione esagerata.

Infine lei esce e le luci si accendono. Ho bisogno di sedermi: sono travolta. Dopo un po’ mi trovo a camminare (assieme alla mia amica tanto generosa e che finalmente ho incontrato) come una zombie alla ricerca del pullman e della porta da cui uscirà. In attesa c’è già qualcuno, ma sono pochi, stranamente (alla fine arriveremo a, che ne so, una trentina di persone…). Ho il terrore che sia tutto finito lì e che lei non si faccia vedere o che non si fermi a firmare gli autografi e io non posso permettermi di non vederla più. Mi manca già. Un pensiero mi tiene su: è stato tutto così fantastico che non può essere che venga rovinato proprio alla fine.
Mentre aspetto, mi stupisco della pacatezza dei fan: nessuno che spinge, nessuno che si urta. Gli stessi addetti al carico-scarico e le guardie sono tranquillissime anche quando devono spostare le transenne. Mi domando se sia lei, con la sua personalità così luminosa e pacata ad attrarre un pubblico del genere: durante il concerto era pieno di gente che urlava “Ti amo” in tutte le lingue, dichiarazioni d’amore tenerissime e sincere, mai disperate o dal sapore della frustrazione, come può capitare in casi di ossessione. Non so se ho mai visto qualcosa del genere…

La porta si apre, alla fine, e lei è lì. E’ piccolissima, davvero uno scricciolo (dalle tette grandissime, però!) ed ha un sorriso bellissimo su quella bocca dipinta di rosso brillante. All’inizio sembra quasi stupita di trovare qualcuno. Poi le viene passato un pennarello e inizia a firmare. I primi fan le domandano se è possibile fare foto e lei, un po’ dispiaciuta e sempre con la sua vocina che attira buffetti sulle guance, spiega pacatamente, in maniera quasi disarmante, che non può fermarsi a fare foto, altrimenti rischia di perdere il suo volo. Arriva a me; le porgo la Moleskine e le dico, d’un fiato e mezzo ridendo di gioia “Я тебя люблю” (Ti amo). Sembra quasi arrossire nel rispondermi “Спасибо” (grazie) a cui replico, questa volta sì, ridendo per quanto è buffa, con un prego, sempre in russo. Poi inizio a farle foto mentre parla con gli altri fan e mi godo lo spettacolo di come lei si fermi un po’ con tutti, faccia commenti, rida e di come i presenti non si accalchino, non la pressino e, una volta ottenuto l’autografo, si spostino lasciando passare chi magari è dietro (sì, deve essere proprio merito della sua personalità se ha un pubblico del genere).
Nell’ultima foto che le faccio, lei guarda direttamente nell’obiettivo. E’ così ricolma di bellezza che non capisco niente e, completamente rincoglionita, per errore, metto a fuoco il suo pullman sullo sfondo e non il suo viso. Però, se la guardo da lontano e con gli occhi socchiusi, la rivedo splendida come quella sera.
Ormai la amo e non posso farne a meno.

La prossima volta le chiederò se posso abbracciarla.

 

Il pullman della band e Regina Spektor che mi copre l’inquadratura -_-‘

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Di lacrime facili

La vera verità è che sono di lacrima facile. Non so per quale motivo, ma ricordo che è iniziato tutto d’un colpo: all’improvviso, qualche anno fa, mi resi conto che non potevo ascoltare neppure le patetiche musiche di sottofondo ai servizi del TG. In realtà succedeva un po’ con tutto: era come se le mie emozioni si fossero improvvisamente amplificate e bastasse veramente poco -qualche scemenza, sul serio- per scatenare un terremoto dentro di me. Rabbia oltre i livelli di guardia, occhi che esplodevano nel tentativo di trattenere i flutti che vi premevano dietro, languore infinito dopo una dose di morfinico amore. Ovviamente ho fatto di tutto per controllarmi, perché le emozioni “live” sono uno dei miei ostacoli più grandi: non mi sento in grado di gestirle e, tendenzialmente, mi terrorizzano. Meglio un pianto a dirotto sotto le coperte o delle chiacchiere “a viso aperto” davanti allo specchio, muto confidente e utilissimo strumento che permette ad una sempre viva e razionalissima parte di me di studiare le mie espressioni mentre vengo travolta dalle emozioni (non ho mai capito esattamente come sia nata questa scissione che ha dato origine alla “piccola ricercatrice” dentro di me, né se sia una cosa poi tanto grave avere qualcuno nel proprio cervello che si appunta l’esatta sequenza di muscoli che si attivano durante un sorriso, o uno sguardo trasognato…).
In pubblico, invece, il tutto è sempre taciuto. Be’, è chiaro che sono un essere umano e quindi sicuramente delle emozioni le esprimo, ma sicuramente non si tratta mai della reale intensità provata. Provo spessissimo il desiderio di abbracciare qualcuno, per il puro desiderio di farlo, di esprimere vicinanza, o affetto, o supporto, o qualsiasi cosa voglia dire un abbraccio. E’ raro che lo faccia, comunque. E, ad esempio, non so mai se, incontrando una persona che non vedo da tanto tempo, io debba baciarla sulle guance o no. A volte lo vorrei, ma non lo faccio, perché non capisco se ci sono regole a riguardo. Di nuovo, però, non voglio sembrare (e sembrarmi) una sorta di automa. E’ solo che ho serie difficoltà ad esprimermi. Forse sono più brava con le parole scritte, o almeno mi piace crederlo, per salvare almeno un po’ le apparenze. Di sicuro spesso mi trovo, dal vivo, senza sapere quali siano le parole o azioni più appropriate. L’immagine che mi viene in mente è quella di un fiume di significati ed emozioni che mi si accavalla dietro i denti, parole che si intralciano a vicenda senza essere in grado di farsi strada verso la luce. E allora resto zitta e annuisco e spero solo che dall’altra parte ci si accorga che quel fiume, pur se sotterraneo, esiste.
Ma è chiaro che tutte queste emozioni, poi, devono trovare uno sfogo. E allora mi sorprendo come questa mattina a piangere, commossa, sul servizio della nazionale italiana di calcio che è passata in semifinale agli euopoei. Insomma: a me piace il calcio, mi piace proprio vederlo giocare…però così è esagerato.
Oppure mi ritrovo a fare sogni, come quello di questa notte, a seguito una giornata veramente piacevole, trascorsa in un luogo che mi regalava le sensazioni di “casa”…

Eravamo io e lei, in una cittadina medievale con però molti elementi steampunk (oppure, semplicemente incoerenti). Il periodo “storico” era molto particolare ed agitato: c’erano un sacco di guardie a protezione di una dittatura in fermento; in particolare si cercava un bambino che si diceva avesse il potere di rovesciare questo governo ingiusto. Noi due (ma non eravamo le sole) lavoravamo per fare il modo che la “profezia” si avverasse; mentre io agivo nell’ombra, lei era più esposta, infatti la polizia conosceva il suo aspetto, tanto da costringerla a girare, in quell’occasione, vestita da suora spagnola (non so che cosa ne indicasse la provenienza, dato che l’abito monacale era quello tipico -nero e bianco- che si incrocia in ogni parte del mondo; però io sapevo che era spagnola…valli a capire, i sogni!). Siamo nella piazza del paese e giriamo sforzandoci di sembrare interessate alla merce esposta sulle bancarelle in un giorno di grande mercato. Guardiamo, tocchiamo e, nel mentre, osserviamo i gendarmi che si aggirano tra la folla: c’è qualcosa che li agita. Nell’aria si percepisce l’elettricità tipica dell’attesa.
Mentre rovisto tra i giornali e i documenti “antichi” (o d’antiquariato?) esposti su un banchetto, estraggo proprio una foto di lei, vestita da suora, per giunta e, poco sotto, una taglia in piena regola. La compro senza pensarci su e mi affretto a nasconderla anche ai suoi occhi: non vorrei turbarla. Spero, intanto, che le guardie lì presenti non abbiano mai visto quell’immagine, o la riconoscerebbero subito.
E poi, all’improvviso, ecco che succede ciò che stavamo aspettando: in fondo alla piazza compare il bambino, come dal nulla. E’ alto (o forse, data l’età -10 anni circa- sarebbe meglio definirlo “lungo”), moro coi capelli corti e spettinati, e vestito alla buona. Senza aspettare oltre, si mette a correre e, poco dietro di lui, compare una sorta di suo alter-ego, ma in ombra, come se rappresentasse la sua parte cattiva. Era chiaro che il doppio “nero” non doveva vincere la corsa (una gara-danza che prevedeva di raggiungere una statua al centro della piazza). E’ il nostro momento: corriamo anche noi, intrecciando i nostri percorsi cercando di coprire quello del bambino, diretto verso l’immagine di quello che sembra un cinghiale enorme in pietra. Attorno a noi c’è il caos più totale. Forse qualcuno tenta di colpirci con armi a distanza, ma niente ci tocca. Ricorda un po’ un rituale e un po’ una musica in cui il tema principale è rappresentato dai “due” bambini, mentre noi siamo la melodia che riprende il discorso centrale.
Non ho ricordi riguardanti il momento finale della gara, perché la scena si sposta di qualche tempo in avanti. Io e lei siamo in viaggio e discutiamo di come le cose stiano cambiando. Effettivamente ho l’impressione che la dittatura non ci sia più, però rimango colpita -e non troppo positivamente- dalla velocità del passaggio dalla vita medievale alla città moderna che si sta verificando. In un certo senso, era come se il tempo, prima bloccato da una sorta di diga invisibile, avesse preso a scorrere inevitabilmente troppo veloce. E’ un po’ quello che tenta di spiegarmi lei, con un senso di accettazione forse dato dall’età maggiore della mia, seppur di poco. Non posso obiettare: alzo le spalle e continuo a camminare. Alla fine arriviamo ai giorni nostri, in un cortile che ricorda quello dove abita mia nonna. Lì c’è la sua macchina e so che dovremo salutarci, probabilmente per sempre. Il nostro lavoro è finito e non c’è più nulla da fare, insieme. Non voglio; inizia a prendermi molto male al pensiero di quanto mi mancherà, però lei sorride, perché è come la questione del tempo che scorre veloce: deve andare così. Allora, prima di partire, mi attira a sé e, finalmente, dopo che era passato tanto tempo da quando gliel’avevo chiesto, ci baciamo ed è una sensazione dolcissima ed amara, che non so se sono in grado di vivere appieno. Vorrei durasse di più, ma lei si scosta e mi sorride rassegnata e terribilmente dolce.
Non so cosa dirle e anche lei tace, sale in macchina e va via.

Era tantissimo che non sognavo un bacio. Un’eternità, quasi. Probabilmente ci sono state troppe emozioni non espresse, oppure, troppe emozioni e basta. E così, dopo una notte del genere, forse non dovrei stupirmi se poi piango davanti ai festeggiamenti dei tifosi che esultano in un’esplosione genuina ed incontrollabile.
Forse no, le mie lacrime non sono poi così facili: sono solo le situazioni, gli eventi e le persone che incrocio…

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Quello di cui senti parlare è anche quello che potrebbe capitare

Oggi ero al lavoro, quando arriva una signora dai 60 ai 70 anni e mi chiede informazioni che non sono in grado di darle “Mi dispiace, ha sbagliato ufficio” e la indirizzo dove dovrebbe andare, perché “Qui trattiamo solo di lavoro domestico”. A questo punto inizia a parlare e parla a ruota libera, perché lei sta cercando una badante per suo marito che ha l’Alzheimer e quasi ogni giorno esce di casa e beve “poi rientra la sera e mi riempe di botte”.


E’ stato un istante, ma eterno, in cui non sapevo che cosa rispondere, ma lei riprende, dicendo che si accontenterebbe anche di qualche ora in una struttura , purché lo tengano lontano dall’alcool, perché quando non beve si sta così bene, parlano, lui è tranquillo e lei è serena, così come ieri sera, quando, andando a dormire, gli ha chiesto “Ecco, ma non siamo stati bene, oggi, che abbiamo parlato? Non può essere ogni giorno così?”. Ma oggi è già uscito presto. Va nei bar, spende anche 500,00 Euro in un giorno in bevande e cibo per sé e offerti, o giri a vuoto in taxi cercando ragazze giovani e prostitute. E poi lo dice alla moglie.
E poi, o forse prima, la pesta, lei, che è una di quelle donne “di un tempo” che non ha mai denunciato per paura del disonore, che non l’ha mai detto alla madre per non darle dispiaceri, o alle sue due figlie che ogni tanto è costretta a chiamare dal pronto soccorso e arrivano di notte, lamentandosi di una delle solite “sceneggiate” perché, immagino, credere che il proprio padre sia un violento e lo sia stato per anni, costringendo la moglie a starsene bloccata a letto anche per giorni interi, da quante gliene aveva date, è più difficile che credere, invece, alle parole di lui, secondo cui lei è matta, dà i numeri e ogni tanto gli tira proprio fuori le sberle dalle mani, ma sono solo litigi.
E cosa potevo dirle quando afferma che “Ormai non ho più una vita” al mio tentativo di spiegarle che deve fare di tutto per tenerlo lontano da sé, perché la vita è sua e deve difendersi? Io non so, non sono brava con le parole, nemmeno quando racconta che a volte vorrebbe prendere un coltello e ucciderlo, “ma se mi avvicino troppo e mi ammazza lui?”.

So solo che mi sono fatta lasciare il suo numero di telefono e domani la chiamerò e le darò i numeri di due centri antiviolenza della zona, perché lei non li aveva mai contattati.
Però a me, stasera, viene solo da piangere.

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Non vado a messa

Sono stata educata come una cristiana. Non so se la fede dei miei genitori sia così incrollabile da considerarala un elemento a cui assolutamente una bambina dovrebbe avvicinarsi appena possibile. Probabilmente la verità è che è abitudine battezzare, mandare a catechismo e far comunicare. Per dire: non ho mai visto mio padre pregare e mia madre non va a messa; con lui non ho mai parlato di religione, lei mi riferisce spesso di non approvare il modo di agire dell’istituzione ecclesiastica, ma di credere in “qualcosa”. Il risultato finale è che sono arrivata a beccarmi un paio di sacramenti e che mi sono fermata giusto in tempo, evitando così la cresima e quindi la confermazione con conseguente dono del mio corpo/mente/spirito all’esercito di Cristo. Roba da finire veramente per ringraziare Dio: grazie di avermi aperto gli occhi e di avermi resa consapevole dell’errore che stavo per fare.
Il mio rapporto con la religione cattolica s’è incrinato nell’adolescenza: prima ero troppo ingenua ed il mondo era rose e fiori -mi succede ancora, purtroppo: temo non si guarisca veramente mai!- poi sono diventata troppo incazzata, perché era tutto ingiusto e la gente era uno schifo. I preti erano falsi e poi erano solo uomini: percepivo l’ingiustizia di base nella divisione dei “compiti” della classe sacerdotale. E poi c’era Dio che era e non era Gesù. Gesù sembrava un buon cristo, a parte essere uno morto che usciva dalla tomba (idea che mi atterriva, con l’avvicinarsi della Pasqua) ma quel Dio sadico? Che dire di lui? Se allora avessi avuto la malizia di adesso, avrei giurato che si masturbasse guardandoci patire: non mi spiegavo altrimenti la discordanza tra le prediche di amore e la realtà -paradossalmente quasi totalmente cattolica- che mi circondava. Troppe incongruenze. Incominciai così a parlargli a quattr’occhi, a chiedergli spiegazioni, a pregare, a sforzarmi di essere “buona” e a mettere in pratica l’amore; il tutto per cercare di migliorare il mondo, migliorare me ed avere qualche possibilità di udienza col grande capo. Chiedevo scusa per tutti i peccati che avevo commesso (figuriamoci: quali peccati si possono commettere a 12 anni? Maledetta religione della colpa!) e chiedevo scusa per aver chiesto scusa, perché, in fondo, sospettavo di volermi pulire la coscienza confidando nel perdono, ma senza un reale pentimento (figuriamoci n°2: di che cosa ci si può pentire a 12 anni?!?! Di non aver sparecchiato e quindi di aver reso infelice mamma???). Però quel dio era evidentemente troppo concentrato a titillarsi il frenulo (avrei detto allora, se io, all’epoca, fossi stata la io di adesso) per degnarmi di una risposta: cominciai a sperare con tutta me stessa che esistesse e che soffrisse veramente quando qualcuno affermava che non credeva in lui, così come mi dicevano i vari don Peter Pan (ogni volta che dici che le fate non esistono, una fata muore…). Passai qualche annetto a litigare con un dio stupido, finché non arrivarono i fatidici 7 giorni* di cui ognuno può usufruire, se vuole: ricreai il mio mondo, la mia realtà. E l’ultimo giorno plasmai dio a mia immagine e somiglianza. Non era più maschio, tanto per cominciare, e non era più cattolico. Allelujah!

Non mi va, ora, di raccontare per filo e per segno tutta la mia costruzione teologica di allora -tra l’altro, non sono neppure più sicura di ricordarla bene: basti sapere che, finalmente, mi ero allontanata da una religione che mi avevano fatto ingurgitare sin da piccola. I miei progressi sono stati coronati infine dalla richiesta di sbattezzo e ora (già da un anno e passa, in realtà) sono fieramente, ufficialmente non cattolica. Gaudeamus!
E’ per questo, ossia per la “fatica” che ho fatto per liberarmi da certi condizionamenti e per la decisione che ho dimostrato nel prendere posizione e rifiutare decisamente di essere annoverata tra le fila di gente le cui idee spesso mi fanno ribrezzo che provo un fastidio profondo quando tentano di ripropormi la stessa minestra.

Ad esempio mi torna in gola la colazione appena masticata quando il venerdì, alle 7.00 circa, Uno Mattina mi propone un prete che spoilera -credo- il vangelo della domenica. Purtroppo di questa iniziativa non trovo traccia online, tranne che su questo breve articolo (non saprei come chiamarlo): non sembra neppure una cosa ufficiale, tanto silenzio vi è attorno. Addirittura, all’inizio, i giornalisti neppure presentavano o ringraziavano il sacerdote, ma proseguivano col programma come se nulla fosse successo, tanto da farmi sospettare, le prime volte, che ci fosse una pesante interferenza in corso…
E, invece, nessuna interferenza: lui arriva lì, fa il predicozzo, lo ringraziano (ora) e se ne va. E il tutto a che pro? Che cosa dovrebbe darmi questo intervento? Che scopo ha? E perché viene interpellato solo il rappresentante di una religione**? E’ chiaro che le mie sono domande puramente retoriche: la mafia cattolica necessita costantemente di nuovi adepti ed ha i mezzi per potersi garantire una diffusione capillare di rappresentanti che, una parola qui e una lì, contribuiscono a lavare il cervello alla gente.

Be’, a me questo fa vomitare. Non vado a messa: perché devo sorbirmela quando sto guardando tutt’altro?

_______________________________
*non sono 7 e non sono neppure giorni veri: è una temporizzazione unicamente simbolica, ma ne ho approfittato per fare una citazione sarcastica, perdonatemi.

**in realtà, anche se si trattasse di rappresentanti di altre religioni la cosa mi darebbe fastidio: secondo me la fede è una cosa molto privata; dal momento in cui inizia a farsi pubblicità con l’intento di espandersi, perde il suo valore e, tra l’altro, finisce con l’essere invadente ed inevitabilmente fastidiosa.

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Cibo per l’anima

Sono sempre stata cicciona. E’ così che mi chiamavano all’asilo e alle elementari. Alle medie i meccanismi della socializzazione impongono una modificazione del linguaggio, e allora sono i gesti, i non detti o l’ironia ad esprimere lo stesso concetto. Come essere eletta “miss classe”, prima della votazione vera. C’è di buono che ero simpatica e mi prendevo in giro anche io, perché l’avevo imparato all’asilo: se ti fanno schifo i vermi, gioca coi maschi a tirarli fuori dalla terra, così non te li butteranno addosso per spaventarti. E a me facevano schifo, i vermi, perciò ridevo anche io di me e i miei compagni di classe si divertivano. Io anche, è chiaro: mi sentivo accettata. Mi chiamavano alle feste e a volte volevano farmi provare a fumare le canne o le sigarette normali: ero una di loro, insomma, anche se poi le canne e le sigarette non le fumavo.
Alle superiori ero amica di tutte e tutti: intelligente e simpatica, anche se brutta. Non mi sono mai sentita particolarmente sfruttata per i compiti e penso di non esserlo stata, e poi capitava pure a me di copiare. So di essere stata esclusa da qualche festa estiva a casa di “quelloriccoconpiscina” -mio compagno di banco, tra l’altro- ma, a pensarci bene, non avrei mai avuto il coraggio di mettermi in costume da bagno di fronte a loro: se le mie compagne di classe si commiseravano per il culone, che cosa dovevo dire io, che non ricordo un giorno senza di lui? Il bello è che non so perché: perché si è ciccioni già da piccoli? Dovrei dare tutta la colpa ai miei genitori o ai nonni? Si dice che buttarsi sul cibo sia un modo per combattere il senso di abbandono e la carenza di affetto: è possibile sentirsi così già da piccoli, con una famiglia alle spalle che definirei buona, senza traumi che io sia in grado di ricordare, senza liti, sberle o cinghie, senza quelle storie terribili che, invece, a volte si sentono? Certo, mio padre lavorava sempre, così come lavora adesso e mia madre idem: passavo la giornata divisa tra asilo (che mi annoiava, perché sapevo già scrivere, al momento dei miei ricordi di quel luogo) e la casa dei nonni materni che straviziavano me e mia sorella, forse per reazione alla loro, di infanzia. Ricordo con quanto gusto mangiavo i panini al prosciutto e maionese della merenda, rigorosamente accompagnati dal succo di pera. Quando a tre anni ho smesso di andare alla scuola materna perché stavo male (mi mangiavo le unghie e pregavo ogni mattina i miei di lasciarmi andare a scuola con mia sorella, invece di quel postaccio insulso dove ero costretta), ricordo che mangiavo anche la pastasciutta (PAUSA UN ATTIMO: non fa riderissimo questa parola? Pastasciutta…Ahahahahaha a me da morire!) a casa della nonna. Faceva un ragù buonissimo, che non ho mai più mangiato altrove. Oppure i crostini col gorgonzola, o le bistecche impanate, le patate al forno, la pasta al burro col prosciutto, la minestrina in brodo piena di “farfalline” e con un fondo di formaggio grana di mezzo centimetro di spessore…
Ormai lo so: la maggior parte dei miei ricordi, da piccola, riguardano il cibo. Il “viaggio” a Venezia? Un ristorante in cui si entrava scendendo due scalini e dove ho mangiato sogliola e, per la prima volta, una polentina quasi liquida. La vacanza a Gardaland e i laghi? Un piatto di pasta al ragù in cui tentavo di fare la scarpetta, prima che il cameriere me lo rubasse -salvo poi restituirmelo a causa della mia espressione di puro sconcerto e la richiesta di mio padre (“La bambina deve ancora finire…”). La visita ai lontani parenti di Latina? La pizza. Mia sorella sostiene che fosse una colazione, ma secondo me era una cena. Cena con la pizza, che per me equivaleva a dire “festa”. La prima puntata in Sardegna, oltre al mare (ecco, l’acqua mi restava quasi sempre impressa, soprattutto se ci potevo nuotare dentro), equivaleva a pomodori buonissimi e pesce. Quando mia madre domanda se mi ricordo un fatto qualsiasi riguardante la mia infanzia, la prima domanda è “Ma cosa avevamo mangiato?”.
Il cibo, per me, è sempre stato un’ancora, me ne sono resa conto, ma da quali carenze ciò dipendesse non l’ho mai realmente capito. Anche adesso, lo so, quando sono in bella compagnia posso saltare un pasto, oppure mangio pochissimo. Se sono da sola o se non sto bene con qualcuno (per noia, generalmente), allora mangio un sacco. Troppo. A volte penso che cibo e carenza d’affetto, in me, siano collegati in quanto, sia quando mangio che quando mi sento amata, ho caldo alla pancia, che sembra una cosa sciocca da dire, infantile, magari, ma è l’unico modo in cui riesco a descriverlo. La mia non è un’ossessione, sia chiaro: mi piace mangiare e so di avere determinati comportamenti in date situazioni, ma niente che mi spinga verso disturbi più gravi. Una comune risposta psico-sociologica, suppongo.
A proposito di cibo, è da Dicembre che non mangio più carne: il tutto è inziato per vedere che cosa provavo, per sapere se ero dipendente dal maiale, pollo o mucca che fosse. Volevo sperimentare su me stessa non tanto la privazione, quanto il cambiamento. Ho, in pratica, trovato il modo per assumere del cibo in maniera un po’ più attenta: devo pensare a cosa mangio e quanto, devo studiare modi diversi di cucinare i legumi, devo capire come preparare dei piatti veloci almeno quanto una bistecca ai ferri. Non si tratta, mi pare ovvio, di una possibile soluzione al mio rapporto col cibo e con me stessa, però mi rendo conto che la concentrazione e l’attenzione finiscono per entrare in quel meccanismo, anche se non sono del tutto conspevole del modo in cui lo modifica. Nel frattempo, tra l’altro, prima ancora di fare il tentativo vegetariano, ho iniziato a impormi sulla “fame”, cercando di ascoltare il mio stomaco, di non andare oltre al livello di sazietà. Ora, sulla mia agenda, vedo che un anno (e quasi un mese) fa pesavo 17 kg in più. Devo confessare che mi sembra un’esagerazione: non mi paio così dimagrita, anche se molta gente che non mi vede da un po’, come prima cosa mi domanda se io sia a dieta. La cosa mi fa incazzare. No, non sono “la cicciona a dieta” che si vedeva brutta e, per la vergogna impostale dalla società, ha deciso di dimagrire. Sono ancora la cicciona che si vede spesso brutta, solo che adesso cerco di ascoltarmi, invece di ignorarmi. Non sono sicura che questo mi renderà “bella” (non so, esattamente, in quale senso: è un concetto così difficile, quello di bellezza), di certo non voglio esserlo per loro che mi vedrebbero così solo se rientrassi nei canoni stretti quanto un paio di pantaloni a vita bassa (che sono un po’ il simbolo del male, per me). In realtà odio che mi si chieda se sono dimagrita e di quanto, per lo sguardo di soddisfazione che leggo a volte negli occhi di chi me lo domanda, quasi che provassero un senso di fastidio a vedersi circondati da gente grassa ed io, finalmente, avessi accettato di ritornare tra i ranghi del peso forma, ubbidiente e vinta. Mi dà fastidio che pensino che io tenti così di essere bella, nel senso in cui lo intendono loro. Sì, io vorrei esserlo, vorrei esserlo davvero, bella, come sono stata bella a dire la verità, o quando ho baciato per la prima volta una ragazza che mi piaceva da morire, oppure ho sorriso senza dire niente -perché volevo solo sorridere- ad una bella donna. Io voglio essere così. Bella così.

E, cazzo, questo post non ha neppure un filo conduttore, non arriva da nessuna parte e sono già stufa di scrivere. Ecco.

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L’epica nel dna

Ho appena finito di leggere l’ Iliade.
Lo dico con un’aria stranita, come se si trattasse, in realtà, di una frase che ho bisogno di ascoltare per crederci, perché è un po’ una cosa che persino a me sembra buffa. La gente a cui lo dico, di solito, ride, ma, se ci penso proprio bene, la verità è che si trattava un’idea che mi girava per la mente da tanto tempo: la parafrasi alle medie e alle superiori è sempre stata così piacevolmente rilassante, per me che amo tanto le parole, da lasciare un ricordo quasi dolce sia dell’epica omerica che di Dante. Sono sicura che prima o poi leggerò anche la Divina commedia, infatti: attendo soltanto una piccola spinta, la scintilla della consapevolezza che i tempi sono maturi.
Per l’Iliade questa è stata rappresentata da Cassandra di C. Wolf che è stata in grado di lasciarmi con un senso di orfananza persino maggiore rispetto alla media dei libri che finisco ed è strano, perché non credevo che sarei andata oltre alla prima pagina. E poi, invece, eccomi a trovare la chiave di lettura, il giusto ritmo, i passi per muovermi attraverso la mente del personaggio come fosse la mia. L’autrice mi ha fatta innamorare per l’ennesima volta nella mia vita di qualcuno che non conosco: di lei e della protagonista. Lei, un genio. Cassandra, una donna forte e fragile, così vera e consapevole da farmi desiderare di essere come lei. Ovviamente sapevo come andava a finire la storia, perché le narrazioni delle gesta di Achille, della scelta di Paride, della forza di Ettore e di tutti gli altri mi sono familiari. Il mito greco non dico che non abbia segreti per me, ma mi affascina per tutta una serie di motivazioni che sarebbe troppo lungo spiegare ora, perciò ne ho letto un bel po’, ma è stata una sorpresa vederlo da un’altra prospettiva. Ad esempio “Achille la bestia”: quando quest’espressione ritornava nel testo, quasi rabbrividivo. E pensare che “da piccola” tifavo per lui, un caro bravo ragazzo, in fondo, destinato ad una vita breve ma gloriosa e ad una morte veramente idiota. Viva i Greci, abbasso i Troiani che avevano il torto di stare dalla parte di uno sciocco che aveva scelto l’amore di una donna solo perché bella, come se questo bastasse. E poi è inutile: la scelta migliore sarebbe stata la sapienza (sì, io avrei optato per Era. Spero che Atena ed Afrodite non me ne vogliano, ma era la cosa più logica da fare: l’intelligenza ti renderà in grado di sviluppare un’ottima tattica di guerra, oltre ad essere una qualità apprezzabilissima, tale da farti avere almeno qualche chance con una donna affascinante…).

Dicevo: viva i Greci e viva lo sfortunato e tenero Achille! E, invece, eccolo lì: un affamato di guerra, distruttore e vile. Dovevo saperne di più. Così, finito Cassandra, ho voluto prendere in mano l’opera dalla quale tutto aveva avuto inizio. A parte la mia sorpresa nel rendermi conto che della stessa veggente non c’era praticamente ombra e del fatto che il racconto si chiude con la morte di Ettore (niente cavallo, niente frecce nei talloni…), ciò che mi ha più stupita è stato il mio atteggiamento o, meglio, la mia percezione del racconto. Era come starsene seduti sulla vetta di una montagna e guardare il panorama, scorgendo città, seguendo il corso dei fiumi dalla foce fino al mare, percorrendo con lo sguardo ogni strada, collina, avvallamento, imprimendosi nella mente l’esatto aspetto del luogo in cui si vive. Solo che quello che vedevo non era un paesaggio: era la “mia” cultura. Durante tutto il racconto ho continuato a percepire con piena consapevolezza le basi del mondo (“occidentale”, è questo che intendo) in cui vivo. Il culto della forza, l’onore, la ricchezza, la conquista, la morte violenta esaltata in quanto sacrificio per la patria.

Ho letto l’Iliade e l’ho trovata ridicola.
Il canto dell’ira di Achille non è altro che la favola sulla puerile lamentela dell’eroe stizzito perché perdente nella contesa con Agamennone. E qual era la posta in gioco? La sua schiava preferita, Briseide, che, per come viene trattata potrebbe persino permettersi di non avere un nome: ninnolo, decorazione che aggiunge valore solo a chi la possiede. E così ogni donna: madre, moglie o schiava che sia: una medaglia da appuntare al petto del combattente. Persino lo stupro delle donne (prima appartenenti ai vinti) è una cosa cosa così naturale e pacifica da diventare un placido “dormire nel letto”.
Lo so che sono cose che tutti sanno o dovrebbero sapere e mi rendo conto anche di essere banale a criticare un’opera di millemila anni orsono: nessun Omero si farà un’analisi di coscienza dopo le mie parole. Il mio scopo non è questo, in effetti: come ho detto, attraverso la narrazione epica sono riuscita a osservare la cultura a cui appartengo. E’ a questa che rivolgo la mia critica, perché è evidente che tutti i valori a cui fa rifermento sono rimasti praticamente immutati da secoli. E’ tutto questo insieme che merita la definizione di “ridicolo”: non so se è merito di Wolf che mi ha aperto gli occhi e la mente fornendomi altri punti di vista, però è vero che ho immediatamente pensato che tutti dovrebbero affrontare questo classico e rappotarlo al modo in cui viviamo. I “bisticci” per il possesso di una schiava sono cosa totalmente estranea alla nostra società? Forse l’esaltazione del caduto “per la patria” è avvenimento raro ai nostri giorni? Alla fine del libro ci si rende conto che abbiamo appena finito di guardarci allo specchio ed il riflesso che questo rimandava era solo un imperatore in mutande.

Stupido è l’attaccamento ad un paese natìo, infantile il desiderio di vittoria sul nemico, ridicolo (di nuovo questo aggettivo, sì: chiedo scusa per le ripetizioni) il tentativo di coprire i propri interessi con valori ed ideali, al fine di renderli più belli ed accettabili.
Leggetela, l’Iliade e fatela leggere: è vero che le grandi opere hanno sempre qualcosa da insegnare. A volte, però, è qualcosa di diverso da quello che ti aspetteresti.

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Metodi di educazione

E’ di relativamente poco tempo fa la notizia (che potete trovare riportata ad esempio qui) che una coppietta di adolescenti scoperta nei bagni della scuola a fare sesso sia stata punita con l’espulsione di 1 giorno per lui e 4 per lei. Il preside si giustifica della disparità di trattamento dicendo che lei era colpevole di essere entrata nei bagni dei maschi. Praticamente un’invasione bellica in piena regola.

Mi è venuto in mente quando andavo alle superiori io: fortunatamente era una scuola piccola, ma per nulla bigotta (ricordo con estremo affetto la mia prof di italiano e storia, colei che ha contribuito a risvegliare in me la prima fame di femminismo -dopo la maturità non l’ho più ritrovata e ora la cerco disperatamente senza successo, perché devo ancora darle copia della mia pagina dei ringraziamenti presente alla fine della mia tesi di laurea. Fine parentesi “Chi l’ha visto?”). In quel glorioso e minuscolo liceo i bagni erano in tutto 5, tutti in una stanza, e ogni porta era segnalata dalla figurina femminile (3) o maschile (2). Un giorno, ricordo, mi sono soffermata pensosa ad osservare le porte, le ho aperte tutte e mi sono messa a ridere. L’unica differenza esistente era la presenza di un cestino nei bagni delle femmine. Ecco cos’era che mi rendeva diversa da un maschio: io, nei bagni, posso/so/devo/necessito di usare un cestino! Sarebbe stato interessante sviluppare questa epifania in maniera più approfondita: sicuramente mi avrebbe condotta a una coscienza del discorso sui generi non precoce, ma almeno un po’ meno tardiva. Peccato non aver sfruttato l’occasione: alla fine di quella scoperta mi sono servita unicamente per fare quello che mi è sempre riuscito meglio, ossia farci qualche battuta e suscitare risate. Ovviamente, ad eccezione di necessità puramente idrauliche che mi vedevano bisognosa del cestino, le porte che aprivo erano quelle che prima trovavo disponibili. Grazie al cielo nessun preside mi ha mai beccata: mi rendo conto solo ora della fortuna sfacciata della quale ho goduto, stando almeno alla notizia succitata.

E’ chiaro che le proteste sollevatesi successivamente alla decisione del direttore sono giustissime: i 3 giorni in più alla ragazza, incorniciati dalla patetita scusa scovata dopo una faticosa arrampicata sugli specchi, non sono altro che il retaggio patriarcattolico che ci portiamo sul groppone dalla nascita. Lei è una puttana e come tale va punita: non basti il biasimo della società, giammai! Lo peccato sia sottolineato con dia 3 di majorata punitione et cucimento di purpurea lettera “P” -stante per “personadeditalmeretriciuio”- di notevoli dimensioni su ogni suo indumento! Ed ora tutti a pagina 394 del Malleus Maleficarum.

Scusate, non ho resistito! Oggi ho la cazzonite...

La verità, però, è che a me ha colpito un’altra cosa che, forse, avrebbe dovuto indignare di più: ‘sti due poveri beati sono andati a fare sesso in un bagno durante la lezione. A scuola. In un bagno. Durante la lezione. Quanto tempo di autonomia avrebbero potuto avere prima che i professori potessero accorgersi della loro assenza e venirli a cercare? Sicuramente poco. Quindi loro sapevano che avrebbero dovuto sbrigarsi: era una consapevole sveltina. Ecco, a me questo fa salire un moto di inquietudine enorme: non ho niente contro le sveltine, sia chiaro, perché aggiungono pepe, perché può salire la voglia, perché prende così e così via. Il problema è che ho l’atroce sensazione che, soprattutto tra i giovani, sia l’unico metodo concepito. Purtroppo questa è una notizia che mi viene confermata anche da alcune conoscenze nel campo dell’educazione che coi giovani hanno a che fare quotidianamente: la qualità del sesso viene spesso ignorata a favore della quantità. Ed è chiaro che minori sono i tempi, maggiori sono le possibilità di totalizzare un numero consistente di incontri. Ma a che prezzo? Insomma, io credo che a 15 anni si dovrebbe avere tutto il diritto di prendersi del tempo, giocare, esplorare, capire. Altrimenti, poi, quando le impari le cose? Vabbe’, parlo io che ho iniziato tardi: si imparano comunque, è chiaro, ma perché iniziare volontariamente in maniera disastrosa? Che gusto c’è? Che gusto c’è a fare del pessimo sesso? Una mia conoscente diciottenne una volta se n’è uscita con una frase tipo “Mi annoia fare sesso col mio ragazzo. Sì, lo amo, ma…” e questo perché lei non era mai venuta assieme a lui. L’ho guardata con tanto d’occhi, mentre cercavo di liberarmi il cervello da un’immagine apocalittica postnucleare che era sgorgata dalla mia immaginazione nell’udire quell’affermazione. E poi mi si stringeva il cuore di sincera sofferenza nel sentire la sua frustrata ammissione “Lui viene sempre…insomma, non mi sembra giusto…”. No, in effetti non è giusto. Ma potevo dirle, io, cambialo? A che pro, poi, se magari, un qualsiasi altro lui da quando ha 15 anni non si fa che sveltine?
Non lo so se riesco a spiegare il misto tra stupore, preoccupazione e senso d’urgenza che queste riflessioni risvegliano in me: bisogna fare qualcosa e ogni volta che sento racconti del genere sono sempre più convinta che sia necessario ripartire da tranquille sessioni di masturbazione di gruppo che almeno si comincia da sé, si capiscono i meccansmi, si imparano le basi che poi potranno essere comunicate e condivise. Amen.
Insomma: tutti dovrebbero prendersi un bel po’ di tempo e tastare con mano (espressione che suona un po’ come una battuta scadente) la differenza tra qualcosa di frettoloso ed una luuunga e lenta sessione masturbatoria. Che poi, mi ripeto volentieri: a ogni velocità in realtà va bene, ok anche i cambi di marcia perché non è che ora il Tantra è la Via e il resto è deprecabile, ma qui mi sto riferendo ad un problema serio. Io non concepisco il fatto che si cresca a pane e sesso senza poi capirci niente. E non concepisco che non ci si diverta o ci si annoi a fare sesso. Ripartiamo un po’ dal principio e con calma, tutto qui. Dopodiché, quando ognuno sarà in grado di capire cosa e come piace, ecco che si può iniziare con le sessioni a coppie o a squadre, as you prefer.

Quindi, alla fine, ma tornando al principio di questo post, anche io trovo la punizione ai due giovini totalmente errata: niente sospensione per nessuno, tantomento niente disparità, ma una bella ora di sesso in palestra. Magari col preside dietro la porta che cronometra e, ogni tanto, redarguisce i due: “Non sento ansimare e siamo appena a 10 minuti!”…

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Sms che non invierò mai

Ogni volta che ti vedo vorrei solo dirti: “Ama me! Ama me!”

E poi vederti sorridere.

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La sottana fino al pelo, che Vero!

Ecco, allora io credo che, prima di arrivare a Vicolo Corto, passerò dal Via e anche da questo, questo e questo. E sicuramente, alla fine, la sensazione sarà quella di aver appena edificato due hotel su Viale dei Giardini. Perché io stia parlando per metafore tratte dal Monopoly non lo so spiegare: a volte i collegamenti mentali sono stupefacenti; immagino che sarebbe un lavoro interessante provare ad interpretarli come si fa coi tarocchi e scoprire il destino di una persona: finirò male? Finirò bene? Finirò a breve?
Per non saper né leggere né scrivere, finirò (come il titolo prometteva) a parlare di figa.

Gli articoli che ho linkato hanno tutti a che fare con le modificazioni a cui la vulva è sottoposta per essere presentabile. Ovviamente ci sarebbe da chiedersi “per chi?” e la risposta è “tutti e nessuno”, perché si sta parlando dell’ideale “comune”, ossia di quel tentativo di omologazione a cui anche il desiderio viene sottoposto.
E allora, partendo da me, perché è così che fanno le brave bimbe, vorrei iniziare ricordando la prima volta che mi resi conto che la cosa che avevo tra le gambe poteva avere un’estetica.

Avevo 12 anni. Probabilmente non è vero, ma 12 anni” è l’espressione che uso sempre per definire la maggior parte delle trasformazioni che sono avvenute in me nella fase pre-durante-subitopost adolescenziale. La verità è che non tengo mai le date a mente, soprattutto se sono cose che mi riguardano: la mia “memoria dell’acqua” mi fa ricordare benissimo le emozioni, mentre lascia scorrere particolari insignificanti come il tempo, a volte il luogo e cose pratiche di questo genere…
Quindi, avevo dei simbolici 12 anni quando mi accorsi che c’era qualcosa che non andava sul mio pube: dei peli. Già quelli delle gambe avevano iniziato a cambiare colore e questo significava -lo sapevo- che dovevo avvicinarmi alla depilazione, pena l’abbandono dei pantaloni corti, sebbene non capissi esattamente perché. Insomma, i peli ce li avevo già prima, che io ricordassi, eppure adesso non andavano più bene e, anzi, dovevo sentirmi molto imbarazzata se qualcuno li riusciva a vedere. Mi è sempre rimasto il dubbio su come dovessi considerare quelli delle braccia e confesso che, in certe giovani primavere, la riscoperta gioiosa delle T-shirt era rovinata, nei primi tempi, da un senso di indefinito imbarazzo.
Quindi, come se non bastasse, il mio bellissimo pube morbidamente roseo iniziava a deturparsi con quei cosi che, santo cielo, erano pure lunghi e, al tatto, di stuttura diversa, più resistente, rispetto al già citato vello che mi copriva le gambe. Non potevo permetterlo: ingaggiai una guerra fatta più di nervi che di azioni e sulla lametta vinse la caparbietà dell’ormone. Per pigrizia e senso della realtà mi arresi ed il nemico finì per diventare quel triangolo riccioluto che solo più tardi iniziai ad apprezzare.
Non tentai più di modificarlo, quindi, e col tempo ci feci non solo l’occhio, ma anche la mano, ché a forza di toccare anche quella si abitua, finché iniziai proprio a prenderci gusto. Certo che il colore le donava! E sì, be’, il pelo era diverso, ma aveva una sua morbidezza, un che di caloroso e piacevole. Presi l’abitudine di addormentarmi con le mani nelle mutande, ma non a causa di sonni post-orgasmici: era diventato quasi un rituale rassicurante (sto veramente pensando alla coperta di Linus?!) e rilassante. Passarci le dita attraverso, giocarci…una sensazione tattile di cui non riuscivo a fare a meno.

E’ stato dopo che questa piacevole conquista era ormai da tempo assodata che mi capitò di rendermi conto di quanto cara mi fosse diventata la nuova moquette: l’appendicite venne a trovarmi. Ero in quarta o quinta superiore quando mi operarono, ma, prima di farlo, era stato necessario affidare il mio pube alle delicate ma decise cure di un’infermiera che, per quanto la situazione sembrasse provenire dai più spinti cliché, si limitò a rasarmelo con un macinino elettrico. Il dolore che provavo da giorni non mi aveva fatto subito rendere conto della perdita ma, dopo l’operazione e passati gli spiacevoli postumi dell’anestesia totale (di cui non parlerò, ora), al momento di andare in bagno e calarmi i pantaloni del pigiama…oh cielo! Cos…chi…com…perc…ma…? Di chi era quella collinetta spelacchiata? Non ero in grado di riconoscermi e lo shock si ripeteva ogni volta che la necessità spingeva lo sguardo all’altezza di un paio di mutande abbassate. Non solo: avevo la spiacevole sensazione di portarmi addosso qualcosa che non fosse mio, ma che appartenesse ad una bambina. Non mi ci potevo neppure masturbare con tranquillità! Cioè, ok, non potevo farlo guardandomi…

Non esagero dicendo che mi sentivo fortemente a disagio con quella parte di me che aveva ormai perso tutta la familiarità, con annessi di morbidezza, calore ed estetica. Sì, estetica: mi rendevo finalmente conto che l’aspetto, quell’aspetto, era quello che più mi si addiceva, che mi piaceva e che mi faceva stare bene. Fu in quell’occasione che maturai la mia decisione di iscrivermi al partito del “Pelo libero” -nel momento in cui esso fosse stato creato, ovviamente- e che nessuno poteva permettersi di dirmi come il mio pube dovesse essere acconciato o se il suo apparire fosse quello “giusto”. E’ per questo motivo che faccio fatica a capire l’opinione dei più (spesso e volentieri fruitori di bassa pornografia) che elogiano i lati positivi di un pube glabro: bellezza, sensazione tattile, igiene (?!?!?!?)…soprattutto quando non si tratta dei portatori di tale pube. Perché una persona può sentirsi a suo agio con folte fronde, un praticello regolare oppure con una collina nuda e tutte le versioni che stanno in mezzo, ma la decisione spetta sempre ed insindacabilmente a lei.
E’ chiaro che il look che preferisco “indossare” è, in generale, quello che preferisco vedere, ma da qui a dire che chiunque io frequenti deve apparire come voglio, be’, ne passa…

Allo stesso modo trovo non solo assurda, ma anche inquietante l’imposizione di canoni estetici che influiscono su una cosa che per essere modificata richiede molto più di un rasoio, come nel caso della forma stessa della vulva. Con quali criteri si giudica giusta o sbagliata la forma di un corpo o di parte di esso? E per quali motivi? Il “gusto estetico” messo lì davanti a far da scudo ad ogni critica nasconde solamente un pericoloso istinto alla normativizzazione dei corpi. A che scopo, poi? Forse che la visione di una figa diversa dalla mia potrebbe dare inizio alla più radicale delle rivoluzioni? Anche se, pensandoci bene, se il sesso libero e consenziente è parificatore poiché distrugge i ruoli e li deforma, piegandoli e sacrificandoli al piacere, allora qualche timore rivoluzionario non è da definirsi propriamente infondato…

E allora, via con la rivoluzione del sesso, dei corpi, del piacere! Che mondo meraviglioso sarebbe: meno paranoie, meno infondate preoccupazioni e tanto, tanto più rilassato divertimento.

Che poi, giusto per concludere, io non ho mai visto corpi brutti. Ho visto bruttissime persone, questo sì, ma corpi mai e mi crogiolo nel pensiero che “La bellezza è negli occhi di chi guarda” che finisce per nutrire il mio gioioso ego che non aspettava di sentirsi dire altro…

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Boicotta OMSA

Dalle Sguardi sui generis:

Appello per un’azione di Solidarietà Concreta

Dal 2010 ormai prosegue la vertenza delle operaie dello stabilimento della Omsa di Faenza, minacciate di perdere il lavoro per una delocalizzazione della produzione che nulla ha a che vedere con la crisi e tutto ha a che fare con il profitto; la vigilia di Capodanno il gruppo GoldenLady ha comunicato alle 239 lavoratrici ancora occupate che il 12 marzo 2012, alla fine della cassa integrazione, saranno licenziate.
La perdita di qualsiasi scrupolo da parte dell’azienda ha sollevato la giusta  indignazione di molti/e, decis* a solidarizzare con la lotta di queste lavoratrici. Da tempo è partita una campagna di boicottaggio dei prodotti del gruppo che, anche grazie ai social media, sta raggiungendo un notevole livello di diffusione.
Come donne, collettivi e realtà autorganizzate vogliamo diffondere un appello per un’iniziativa congiunta in tutte le città italiane Sabato 28 Gennaio.
Con volantinaggi, striscioni, musica, presidi, flash mob ed ogni altro strumento utile, proponiamo una giornata di informazione e boicottaggio attivo di fronte ai punti vendita del gruppo GoldenLady (Golden Point).
Nel pieno dei saldi, quando all’azienda farebbe gola vendere il più possibile, vogliamo stare nelle strade per ricordare a chi pensa solo al proprio profitto che le scelte di produzione non possono passare sopra le nostre vite.
Diffondiamo questo appello a tutte le realtà organizzate, femministe e non, e alle singole persone che desiderano impegnarsi per dimostrare solidarietà concreta a questa lotta.

 

Piuttosto che vestire sfruttamento, le calze ce le disegneremo sul corpo!

Lavoratrici OMSA
Laboratorio Sguardi Sui Generis (Torino)
Mujeres Libres (Bologna)
Le De’Genere (http://de-genere.blogspot.com/)
Femminismo A Sud (femminismo-a-sud.noblogs.org)
Xxd – Rivista di varia donnità (xxdonne.net)
Sconfinamenti (Napoli)
Folpette femministe, antifasciste, antimilitariste – Padova
Minerva Jones (minervajones.blogspot.com)
Centro Sociale Askatasuna (Torino)
Collettivo Universitario Autonomo Torino (cuatorino.org)
Altraagricoltura nord-est Padova
Francesca Sanzo (www.francescasanzo.net)
Valentina S. (http://www.consumabili.blogspot.com/)
Franca Treccarichi
Roberta Galeano
Laura Cima
Ferdinanda Vigliani
Vincenza Perilli (marginaliavincenzaperilli.blogspot.com/)
Melina Caudo
Nicoletta Dosio (Movimento NO TAV)
Lavoratrici Slai Cobas
Movimento Femminista Proletario Rivoluzionario
Antonio Caprari
Un altro genere di comunicazione

Per adesioni: sguardisuigeneris[chiocciola]gmail.com

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