Relazionarsi con le persone (quasi) vere

Mi manchi.
La sento quella cosa nello stomaco e anche un po’ più su: è l’assenza di qualcosa, di parole, della tua voce, degli scambi intelligenti, dell’assenza di giudizio. Sì, mi hanno detto che si chiama “nostalgia”, eppure non ne comprendo esattamente il significato o, meglio, il senso: che ragione ha di esistere? So chi sei e cosa rappresenti: sei la solita conoscenza virtuale diventata reale in un’occasione troppo breve. Però il tempo passa, solo che io, invece di dimenticare, ricordo, ricordo costantemente come un ingranaggio rotto. E quindi mi ricordo di te, delle parole, voce, scambi intelligenti e assenza di giudizio. Che ora mi mancano. Il mondo va avanti e, chissà, forse la gente “normale” lascia scorrere. Continuano a dirmi (anche io me lo dico da sola) che le relazioni si costruiscono con le persone “vere”, quelle che si possono incontrare per un caffé e non se ne stanno a mezze giornate di intenso viaggio di distanza. Io ci credo, ci credo intensamente e cerco anche di costruirmele, queste relazioni (soddisfacenti e ricche alcune, di puro svago e necessarie per una parvenza di vita sociale altre), però mi succedono anche di queste cose. Cose che l’aria di primavera non aiuta a gestire tranquillamente.
Te l’ho detto, che mi manchi. Non ti ho detto che vorrei non fosse così, perché smetterei di sentirmi strana e fuori posto: non mi spiego queste emozioni, eppure le provo. Dare loro un nome mi fa sembrare infantile ai miei stessi occhi, come quando dico (a bassa voce e non a tutt*) che “amo”. Amo così spesso che non può essere reale: non era un sentimento nobile e prezioso? Quello che provo io è, invece, tutt’altro che raro…e allora, chi ha ragione? Mi domando se non mi stia inventando tutto, cercando solo scuse per sfogarmi un po’, esperimenti per esprimere quello che invece di solito non sono in grado di portare fuori da me, perché le relazioni con le persone le trovo così difficoltose, complesse e delicate, tanto da lasciarmi spiazzata e un po’ spaventata, rigida e chiusa, timorosa di rompere gli inestimabili cristalli in cui sono scolpite. E da quella mia fortezza osservo tutto e tutt* e, a volte, penso “Ora l* dovrei abbracciare…l* vorrei abbracciare”, ma non lo faccio mai, se non in momenti in cui cerco di cogliermi di sorpresa per sfuggire al mio stesso controllo e allora, da fuori, mi pare un gesto impulsivo ed ingiustificato di cui pentirmi presto, privo di equilibrio, un picco roccioso improvviso dopo un placido susseguirsi di colline.
Odio il fatto che mi manchi: mi fa sentire indifesa ed inutile. Scomposta. Troppo, troppo umana, in balia delle emozioni, mentre aspetto con ansia che tu mi risponda.

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In lotta contro un Tirannosauro

Quando ci si rende conto di essere propens* ad attuare interazioni in modalità passivo-aggressiva, è il momento di fermarsi, respirare e mordersi la lingua.
Poi bisogna continuare a mordersi la lingua, mentre, delicatamente, ci si pesta coi talloni le dita di entrambe le mani, per tenerle ferme. Oppure si inizia a scrivere sul proprio blog un post privo di qualsivoglia spessore (politico, personale o che), per evitare che il prurito spinga a contatti virtuali che muterebbero rapidamente in attimi di spiacevole amarezza, se non di furibondo litigio.
Meglio buttarla sul ridere.
Meglio non nutrire i pensieri circolari, ché tanto ho il compasso sempre in mano e domani ho tutto il tempo per farlo.

Ps: Il titolo è dato dall’immagine di me che desidera ingaggiare con un T-Rex una lotta palesemente impari. Lui non potrà mai vincere: ha le braccia troppo corte e l’arma che ho scelto è la boxe.

Pps: RGNAUUUR RGNAUUUR (Tirannosauro contrariato)

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Romamara/Romamata

Roma, perché avrai per me sempre due facce?

Arrivo in treno
Dolci pendii e sole. Sembra caldo. E’ sempre sembrato caldo, quel paesaggio, anche in inverno: forse sono le curve che ingannano. La vegetazione è diversa e penso di essere in un mondo diverso. C’è qualcosa in quella luce, una sorta di trasparenza diversa dell’aria che mi fa sospirare.
E’ sempre sembrato caldo, anche mentre il cuore lottava per raffreddarsi.

Stazione
Sembra lo stesso binario di tre anni e passa fa. Forse è proprio quello. E quella è la stessa panchina, ma con un’altra attesa. Leggo, mi godo il sole che al Nord non vedo da secoli, pare, e a volte alzo lo sguardo. Dalle scale mobili non funzionanti potresti salire da un momento all’altro: com’eri vestita? Ricordo che ho voluto aspettarti al binario: uno strano capriccio che ancora non mi so spiegare. Forse lo rendeva più romantico. Magari ero solo una ragazza infantile ed immatura. Non so se lo sono ancora. Egoista sì, quello è certo. Però oggi non è tre anni fa: oggi ci saranno altri incontri. Fa caldo, ho braccia e guance bollenti e l’odore dell’aria è buono come può esserlo solo in una stazione: sa di attesa, di possibilità. E sento anche l’odore della mia pelle calda. Lo trovo un buon segno.

Incontri
E’ una sera bella. Sto bene. Attorno a me tutt* sono così bell*.
Potrei iniziare un’orgia da un momento all’altro.

Notte
C’è tempo per il sonno: adesso voglio soltanto parlare. No, in realtà non parlo tanto, mi sembra, eppure, nel mio silenzio, non sono ignorata. Siamo tutt* present*.

Turismo
Parlare ancora. Ridere. Pensare. Condividere. Guardare.
Non so descrivere.

Concerto
C’è tanta gente, ma non parlo con nessuno, se non per chiedere un’informazione. La gente (quella gente) non mi piace, sembra così lontana da me. A volte ho paura che ridano di me, ma non riesco a sentire. Quando mi fisso mi prende male e allora non parlo. Tanto non saprei che dire…
Mi dà fastidio quel tizio che a volte sembra osservarmi quando canto e mando baci -non voglio conferme che stia proprio guardando me, perciò non mi volto dalla sua parte. Mi dà fastidio la tizia che inizia a fumare appena si spengono le luci, nonostante i chiari divieti. Mi danno fastidio tutt* quell* che non seguono l’onda dell’acclamazione, o quella dell’applauso, però non lo faccio neppure io: mi sembra che siamo tutt* sol* o, chi è più fortunat*, in gruppi ristretti, come se l’amore per l’artista non ci accomunasse così tanto.
Il tizio di prima e la morosa (è chiaramente sua: lui è rimasto dietro di lei ad abbracciarla per tutto il tempo: che strana sensazione, sembra che, così facendo, ci stia pisciando sopra marcando i suoi possedimenti. Forse vedo tutte le cose distorte) non si mettono a ballare selvaggiamente neppure su “America”; neppure la cantano: ma che razza di fan siete? Adesso li meno.
No, ma chi se ne frega: lei è lì che canta. E’ stupenda. Quando va dietro le quinte seguita dalla telecamera e si spoglia per cambiarsi sto per morire. Si fa riprendere la pancia. Vorrei vederle una tetta: è peccato? Sta di fatto che continuo a volerle vedere una tetta. Almeno una, dai. Però anche la pancia era bellissima: mi ha messo una voglia addosso…
E poi canta e ci mette energia. Secondo me un paio di volte mi ha guardata, però non ne sono certa come per Regina. Le stavo mandando un bacio. Ha fatto un cenno. Sì, potrei convincermene ed è bello.
Torno a casa che sono felicissima. Sto bene, benissimo, e traspare, tanto che mi si chiede se ho “giannananninizzato i capelli”, perché mi stanno diversamente dal solito. Sì, dev’essere l’entusiasmo. Mi sa che la amo ancora di più.
E poi, chiaramente, la notte stessa la sogno. Mi chiede quale sia la canzone che mi è piaciuta di più. E’ “America”, ovvio. E poi ci abbracciamo. Che bello.
Sono come una bambina.

Saluti
Sono meno malinconica di quanto dovrei. La verità è che sono ancora troppo felice di quell’incontro e gli abbracci mi piacciono.
Poi vado in giro da sola, godendomi ancora la pacata felicità di un tardo pomeriggio primaverile.

Museo
Sono sempre sola, ma sto bene: ho un piano e so come portarlo a termine. Del resto della gente me ne frego, perché sembra che loro se ne freghino di me: amo questo genere di compromessi.
Continuo a stare bene e a godermi la storia antica fino a quando è la tecnologia a rovinare tutto. Voglio provare un giochino multimediale. Entro nello spazio dove la telecamera può recepire i miei movimenti ed il programma agire di conseguenza. Il training va bene: ho capito tutto. Poi è ora di fare sul serio, ma arriva gente. Una comitiva di tardo-adolescenti si ferma a guardare ed io realizzo di essere da sola in mezzo ad uno spazio enorme con loro dietro di me che mi guardano. Non riesco a muovermi: ho piena coscienza del mio corpo che, se mi astraggo e lo osservo da fuori, mi sembra ridicolo. Non riesco a fare nulla: anche il minimo movimento del braccio mi sembra difficile e stupido. Dietro di me loro commentano. Neppure capisco che lingua sia: per una volta non mi interessa, tanto so già cosa stanno dicendo. E ridono. Poi qualcun* si lancia in frasi italiane. Chiedono con sarcasmo di giocare, qualcun*, in inglese, mi dice di fare qualcosa, qualsiasi cosa, per mandare avanti la scena ed io non riesco a capire. Neppure ce la faccio a leggere le istruzioni. Mormorano, mi parlano ad alta voce, finché cedo, mi giro e me ne vado. Uno di loro sta entrando nello spazio ed io gli vado addosso con violenza. Lo spingo col mio corpo facendolo indietreggiare; spero di fargli male mentre lo guardo negli occhi, continuando a stargli addosso pancia contro pancia, ghignandogli contro “I’m sorry, I’m sorry”; però non ci riesco (la mia pancia è morbida, alla fine…)  e me ne rammarico -a posteriori penso che avrei dovuto dargli un pestone sul piede: non ho mai i riflessi pronti in queste situazioni. Vado via dalla stanza senza guardare nessun* mentre tutt* ridono e mi fermo in un angolo della stanza successiva a rileggere almeno dieci volte la targhetta che spiega cosa è esposto in una vetrina, ma non sono in grado di capire.
Se solo ci fosse stata almeno una persona a tifare per me, lì, a difendermi, a darmi un po’ di protezione. E invece ero sola e avevo paura e vergogna. Non dovevo neppue provarci e mi maledico per aver pensato che potevo divertirmi a giocare. Sono incazzata con loro e me. Mi sento umiliata. Perché non riesco mai a reagire in queste situazioni? Perché vorrei ancora adesso essere riuscita a dargli almeno una gomitata nelle costole, come se ciò avesse potuto essere la soluzione finale di questo mio problema?

Ultima sera
Giro in motorino: l’aria della sera è fresca e mi diverto. Sa di libertà e mi mette dentro qualcosa di dolce, come una sorta di nostalgia, o la concessione a sognare un po’.
Cena e persone. Sto davvero bene, colma di affetto.
Al ritorno racconto cose che solo in questi giorni sono riuscita a condividere: è l’aria di primavera, credo.

Fine
Certa gente non mi fa paura. Con certa gente sto bene, perché non mi fa sentire “perfetta” (cosa che mi metterebbe ansia), ma perché mi “fa sentire”. Io ci sono, con certa gente. Sono lì con loro, mentre ci parlo o quando ascolto, e non altrove, in un mondo immaginario con persone immaginarie, illusioni, proiezioni o aspettative.
Certe persone mi fanno pensare; mi fanno stare bene ed essere melensa. Con certe persone giocherei a nascondino al parco e pazienza se mi trovano: non mi sentirei mai sconfitta.

Roma, avrai per me sempre due facce: triste solitudine e bellezza. Ma forse non importa: sarà giusto così.
Ho deciso che strette al cuore, che siano di malinconia o amore, mi piacciono.

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Amo niente

Ti penso, leggerei.
Nell’ignoranza più totale, sono solo occhi.
Grandi, spalancati, eterni.
Senza pelle, senza lingua:
nessun ritmo, niente sangue.
Sgocciolo via coi minuti: sono un momento. E aspetto.
Aspetto.
Aspetto.

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Non votare. Sottotitolo: i sensi di colpa. Sottosottotitolo: sfogo senza riletture.

Ho sempre votato, sin da quando ne ho avuto la possibilità: ricordo la felicità e l’emozione con cui mi recai la prima volta al seggio. Era ancora la vecchia sede -il mio asilo- e forse non ci entravo da quando, a quattro anni, mi ero rifiutata di ritornarci perché mi annoiavo.
Ho sempre votato e la mia famiglia mi ha cresciuta col mito della democrazia e l’importanza della partecipazione. Col tempo, questi rosei discorsi sono diventati meno poetici. Negli anni, la partecipazione è stata sempre di più vissuta come “fallo di ostruzione”: un voto in meno che impedisse all’altro schieramento di arrivare fino in porta. Un turarsi il naso non per vincere, ma per far perdere l’avversario. Uno sconsolato: “Vabbe’, sforzati di ingoiare un boccone amaro, perché sarà sempre meglio di niente…”

Oggi, per la prima volta, non andrò a votare. Non si ripeterà il rito domenicale di tutta la famiglia riunita in processione verso il seggio e la cosa mi riempie di sconforto per due ragioni. La prima è il rendermi conto che qualcosa in cui credevo in realtà non ha più valore: fa male. Mi nuota nello stomaco l’amarezza della delusione e la nausea provocatami da un periodo di campagna elettorale che dura da oltre un anno. Al solo pensiero, poi, che andando dovrei votare il “meno peggio” mi sale l’ansia: non sono più in grado di farlo, la coscienza non me lo permetterebbe.
Il secondo motivo è il clima di nervosismo che si è creato in casa: non ho la pretesa di pensare che il mio gesto abbia messo in crisi le certezze della mia famiglia. E’ solo che odio quando la gente mi guarda come se fossi una stupida, tirando in ballo, tra l’altro, ragionamenti ricattatori che mi feriscono prima di tutto perché li vivo come un’offesa alla mia libertà di scelta e, secondariamente, perché erano pensieri che una volta producevo anche io e che mi sbattono in faccia un passato che non è lontano ed è ancora in grado di procurarmi dolore.

“Senza il mio voto, “quello là” vincerà.
Se non voto, non posso lamentarmi.
Per darmi la libertà di votare, sono mortI in tantI (ovviamente solo uomini: non hanno ancora tirato in ballo le lotte femministe, fortunatamente: non so se sarei in grado di sopportarlo).
L’Italia ha bisogno di un governo solido, altrimenti andrà in malora, non sarà credibile e moriremo tutti.
Varie ed eventuali, più il bonus frequenti strane compagnie

Io, ripeto, credevo nella democrazia, e la morte di chi si è sacrificat* per farcene dono pesava in maniera molto realistica sulle mie spalle (sono sempre stata così melodrammatica: uno spirito romantico che si strugge in cima ad una scogliera tormentata dal mare in tempesta…sigh…). Io credevo vermente nell’importanza del voto e della partecipazione (l’unica partecipazione di cui ero cosciente allora). Quella croce sulla scheda era un gesto fondamentale del mio essere cittadina: qualcun* l’avrebbe visto e mi avrebbe ascoltata. Qualcun*, grazie a quella croce, si sarebbe sentit* responsabile e avrebbe agito anche per me.

Io. Ci. Credevo.

Scoprire di essere stata presa in giro è stato atroce. Realizzare che valori che consideravo altissimi non sono altro che una maschera mi fa sentire svuotata e dover non soltanto vivere un lutto da sola, ma addirittura venire accusata di essere la causa della morte della democrazia (perché se non partecipi al processo democratico, allora vuoi la sua fine, chiaramente) è troppo.
Ho provato ad opporre un logico: “la politica la faccio giorno per giorno”, ma questo sembra non avere valore. In un momento di livore (spero, spero fosse solo quello) è stato addirittura sminuito un progetto che, sì, è piccolo -probabilmente una goccia nell’infinito oceano- ma in cui credo realmente, in quanto “non degno”, suppongo, di essere definito “politica”.

Quest’anno io non voterò per la prima volta e sto sopportando già la mia battaglia e le mie paure. Ma vedere che le persone a me prossime non solo non comprendono, ma tentano di fare leva su sensi di colpa che già ho mi angoscia.
Per quanto possa risultare sciocco (forse c’è ben altro, nella vita, a cui dare importanza…), io ora sto molto male.

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Le battaglie più importanti

Oggi, da qualche parte, venivano ricordati i reduci friulani della battaglia di Nikolaevka, dove (anche) le truppe italiane, male armate e male equipaggiate in generale, risucirono a sfondare l’accerchiamento effettuato dall’Armata Rossa durante una delle fasi della campagna di Russia. Questo in breve: non sono mai stata ferrata sulle battaglie e le cose di guerra (sempre troppo confuse, nella mia testa).

Al TG si intervistavano alcuni anziani sopravvissuti ad un’azione bellica che è rimasta nell’immaginazione di tutt* come un tentativo suicida, inutile sacrificio di “nostri” giovani per il puro piacere onanistico di Mussolini.
La cosa che mi colpisce è il sottofondo di orgoglio e stima profonda verso questi anziani che emerge nelle parole dei commentatori, mentre io provo solo pena. Non le conosco, quelle pesone: non so in cosa credessero, né so che cosa pensino ora, poiché i minuti riservati a questo tema dal giornalismo sono veramente pochi e non dedicati ad un’indagine che si muova in tale direzione. Posso solo immaginare (e neppure avvicinandomi molto) che cosa debbano aver vissuto durante la lotta contro il Generale Inverno, probabilmente costretti ad una guerra di cui neppure conoscevano i motivi o gli scopi. Questo fa nascere in me un forte sentimento di pena: gente buttata in mezzo al nulla e alla crudeltà, per uccidere o essere uccisi, a volte salvati da azioni di pietà da parte dalle stesse persone il cui territorio avevano invaso, a volte addormentatisi per sempre nel gelo, senza neppure rendersene conto…

Eppure, come dicevo, il ricordo di una cosa così terribile si mescola non tanto alla tristezza, quanto ad una sorta di orgoglio: quelli erano uomini valorosi, espressione della nostra Patria; e i sopravvissuto sono anziani a cui va portato rispetto per aver dimostrato la forza di resistere anche in quelle condizioni. E penso che sia tutto sbagliato, perché la conclusione a cui una riflessione su quegli eventi dovrebbe portare è che la guerra è inumana. Non c’è nulla di valoroso, nulla che meriti rispetto nella guerra, perché un evento in cui chi decide le mosse è bene al sicuro e non risponde mai delle conseguenze delle proprie azioni non è altro che un gioco e un gioco in cui la posta è formata da vite di milioni, migliaia, centinaia o anche solo dieci individui non solo non è divertente, ma è condannabile senza “se” né “ma”.
Mi domando perché non si arrivi mai ad affermare ciò. Mi domando perché i reduci o veterani che siano vengano celebrati, invece di essere presi come esempio di come non debbano assolutamente andare le cose. Mai più.

La costruzione del mito della Patria e dei suoi Eroi si fonda anche sulla distorsione di questa prospettiva, distorsione che serve a creare nuovi emuli pronti a sacrificarsi in nome di un’illusione. La risposta ai miei perplessi “perché” sta tutta lì: il sentimeto di un popolo deve essere piegato e deviato dalle sue naturali* conclusioni (lo schifo che io provo, ad esempio) per permettere la sopravvivenza del concetto stesso di “popolo” (che, no, non è una parola affatto inclusiva, ma che serve piuttosto da scudo da tutto ciò che non è “popolo”, ossia l’altro -e penso a quante culture abbiano, nel tempo, denominato se stesse, nella propria lingua “i veri uomini” in contrapposizione a coloro che non facevano parte del proprio gruppo).

E di fronte a queste consapevolezze mi sento stanca.
E banale, come questa breve esposizione del mio pensiero.

*Ora che ho scritto questa parola, non sono più tanto sicura che si tratti di “natura”. Non so se è “normale” che io provi schifo, o che altr* non lo provino e credano invece alla guerra. Però è anche vero che io voglio credere, invece, che sia più normale provare orrore per determinate cose, piuttosto che trarne sentimenti positivi e piacevoli (o, al limte, dolceamari).

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Sc.or-rer/e

A volte, quando scrivo, mi succede di percepire una strana sensazione: mi sembra di essere pioggia ed è come se le parole scorressero da me, dalle mie dita. Le sento passare nei polsi e poi mi parte la musica in testa. E’ sempre e solo una canzone, per quanto non c’entri nulla con, magari, l’argomento che sto trattando:

So perché: l’inizio è esattamente il modo in cui prendo a scrivere. Una lettera, poi l’altra e infine le dighe che si aprono ed il ticchettio costante e veloce sulla tastiera. Pioggia, qui e nell’intro della canzone.
Che poi, indipedentemente dal testo (che faccio ogni volta fatica a seguire e capire, in qualsiasi brano di qualsivoglia lingua), questa canzone in particolare mi ha sempre ricordato l’acqua: il suo scorrere e ondeggiare nella voce che sembra prendere la rincorsa della marea per salire e finire con lo scendere nuovamente, senza sosta, trascinando chi l’ascolta in una buffa danza (quando la ballo -perché le canzoni io le ballo anche, ma di nascosto- finisco sempre per imitare qualcuno in bilico sul ponte di una nave che viaggia su un mare agitato… E’ divertente).
E, insomma, io scrivo così: prendo la rincorsa, salgo con le parole sull’onda e poi mi infrango su scogli o su altra acqua, inciampo su una parola, indietreggio, respiro e scorro ancora.

Poi, non è detto che sia per forza bello quello che esce. Capita che il tutto si riveli solo una pozzanghera, o, altre volte una palude da cui fuoriescono alberi rinsecchiti e scomposti. Ogni tanto, però, capita un mare trasparente e caldo in cui immergere la testa e fare le bolle soffiando forte. O le capriole.

A volte sembra che non dipenda per nulla da me.

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Il nuovo/vecchio significato della parola “amicizia”

dal Messaggero Veneto del 29.11.2012; cronaca di Udine; articolo di Cristian Rigo.
(le sottolineature sono mie)

Teme il tradimento e aggredisce l’amico armato di coltello
La polizia lo ha denunciato per lesioni e minacce aggravate. L’uomo poi ricoverato per aver ingerito tranquillanti

Sospetta che l’amico lo tradisca e lo minaccia con un coltello, poi si prende una dose di tranquillanti e finisce in ospedale. Protagonista della vicenda un udinese di 54 anni che risiede al primo piano di un’abitazione insieme all’amico di 47 anni, in una laterale di via Martignacco. A chiamare la polizia è stato il 47enne, spaventato dopo la reazione violenta del coinquilino.
Tutto inizia intorno alle 21 di martedì. Il 47enne si trova nella mansarda dell’abitazione insieme a un suo ospite, un milanese di 42 anni, quando sente dei rumori all’esterno dell’abitazione dove poco dopo scatta anche l’allarme. Preoccupato, l’uomo esce per vedere cosa sta accadendo insieme ai genitori che abitano al piano terra della casa indipendente. Sulla porta d’ingresso della mansarda l’uomo trova un biglietto con degli insulti e sospetta che l’autore sia il suo coinquilino che infatti, in preda a un probabile attacco di gelosia, lo attende nel corridoio dell’appartamento al primo piano armato di coltello e lo minaccia. A quel punto nasce una colluttazione che coinvolge anche l’amico milanese, graffiato al volto e poi giudicato guaribile in tre giorni dai medici. Va peggio al 47enne che dopo essersi visto puntare contro una lama di 16 centimetri, viene morsicato alla mano e al braccio dal coinquilino e riporta ferite con una prognosi di sette giorni.
Prima dell’arrivo della polizia l’udinese di 54 anni getta il coltello e prende dei tranquillanti che, uniti all’alcol bevuto in precedenza, convincono il personale del 118 intervenuto sul posto a un trasporto immediato in ospedale dove l’uomo, che in passato era stato seguito anche dal centro di salute mentale, viene tenuto sotto osservazione per evitare possibili complicazioni.
Gli agenti della Squadra volante, raccolta la denuncia del padrone di casa di 47 anni, non hanno potuto fare altro che denunciare a piede libero il 54enne per lesioni e minacce aggravate.

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Domanda: di che cosa parla questo articolo?
Confesso che già dal titolo io mi ero fatta un quadro molto romantico (nel senso letterario del termine) della vicenda: era la prima volta, in fondo, che sentivo parlare di un’aggressione causata dal sentimento di rabbia e sconforto che l’essere umano prova di fronte all’amicizia tradita. Non so per quale motivo, mi venivano in mente lunghi scambi di epistole vergate rigorosamente a mano con penna e inchiostro in cui i protagonisti della vicenda si appellavano reciprocamente con sette/ottocenteschi “mio tenero amico”, “carissimo compagno” ed epiteti similarmente fuori dal tempo. Pensavo all’esploratore che raccoglie e registra la storia del dottor Frankenstein che, in qualche lettera precedente spedita alla sorella, aveva giusto scritto che ciò che più gli mancava era il sentimento sincero di un amico… E poi una lite, forse un segreto rivelato, una leggerezza imperdonabile e quindi la delusione e la rabbiosa ricerca di vendetta…

Ma questo articolo parla di tutto ciò? Fosse così, il giornalista avrebbe raccontato del momento di rottura, della causa scatenante. E invece leggo la parola “gelosia” che però male si collega ai termini che dovrebbero descrivere la situazione: “amico” e “coinquilino” (per sicurezza, ripetuti più volte). Stupida non sono (non così tanto, almeno), perciò è chiaro che l’argomento trattato non è quanto suggeriva il titolo, come immagino sia evidente per tutt*. Solo che pare che per qualche strano motivo, non sia possibile chiamare le cose col loro nome (amante/compagno/partner sessuale/convivente…), il che fa strano, considerato che proprio nella pagina accanto, specularmente a questo, è presente un articolo di pari dimensioni intitolato “Corso ai prof per battre il bullismo contro i gay” che tratta di un’iniziativa dell’Arcigay e Arcilesbica locali.
Insomma, certe cose si dicono e si celano contemporaneamente e non riesco a capire se si tratti di una censura o di un “eccesso di delicatezza”, perché, in fondo, mi viene da pensare: e se lo stesso uomo aggredito avesse usato le parole “coinquilino” e “amico”? Non so esattamente che cosa provare: credevo che il giornalismo servisse a dare una narrazione dei fatti il più preciso e neutrale possibile; l’illusione si è infranta parecchio tempo fa, ma trovare certe perle rinnova la mia amarezza. Senza giri di parole, io definisco questa “omofobia”. E anche fosse stata la stessa vittima dell’aggressione a non parlare esplicitamente, sorrido a mezza bocca ricordando quanto la stampa non ci pensi mai due volte prima di passare sopra alle persone (penso solo a come viene trattato l’argomento “stupro”…), senza alcun tentativo di rispettare la privacy altrui, né risparmiando giudizi, commenti e conclusioni che spesso e volentieri sono fonte di ulteriore dolore. E’ ipocrita che tenti di farlo solo per alcuni -scomodi- casi.

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Sogno o son desta…

Rapido resoconto di una nottata oniricamente intensa e piacevole come non me ne capitavano da molto, ormai (con mio enorme rammarico).
Abitavo in Sardegna in una casa molto grande e luminosa. Le stanze erano ampie e belle: mobili semplici, colori allegri, pavimento di piastrelle che parevano di cotto; un misto di nuovo e tradizionale che dava un senso di calore piacevolissimo. Ci stavo bene. Non ero da sola, in quella casa: lo spazio consentiva infatti che ci abitassimo in molt*. Non ho idea di quant* fossimo in totale, ma ricordo chiaramente l’impressione che si trattasse di una bella combriccola. Sull’ordine della deci-quindicina, insomma. Non ricordo tutt*, forse neppure si trattava di persone che conosco realmente: i visi si confondono facilmente. Sicuramente c’era Dxxx -lui me lo ricordo bene. La cosa buffa è che tutt* noi lavoravamo per la stessa azienda: si trattava di un grande negozio e noi eravamo i/le commess*.

Avevamo anche due gatti: la mamma, nera e a pelo corto, e il cucciolo, un magnifico bestio dispettoso rosso tigrato. Del piccolo ero follemente innamorata: era giocherellone e tenero e molto intelligente. Anzi, saggio. Lo dico con cognizione di causa perché, effettivamente, lui comunicava. Non credo parlasse veramente: forse sentivamo (o sentivo) semplicemente la sua voce nella testa, ed era una voce infantile. Però non faceva discorsi da bambin*: pur con lo stesso tono, pur masticando qualche parola, sapevo che stava dicendo cose molto interessanti e che facevano riflettere. Ovviamente alternava i suoi momenti di saggezza ai momenti svago: giocava fino a stremarsi per poi crollare addormentato. Io lo seguivo in tutto: non volevo che si cacciasse in guai o si facesse male finendo sulla strada; sapevo che lo avrei protetto a costo della mia vita. Lo amavo e basta.

Quella mattina ci giunge la notizia che noi commess* non avremmo dovuto lavorare nel solito posto, ma che per un’occasione straordinaria eravamo tutti trasferiti (solo per quel giorno) a Granada, nel sud della Sardegna (ovviamente le mie conoscenze geografiche sono nulle anche durante la mia vita onirica). Chiedo conferma della sua localizzazione ad un coinquilina -che sembrava essere la mente organizzativa di tutto il nostro gruppo- che, ovviamente, annuisce: è proprio a sud della Sardegna. Dovremo prendere le macchine e spostarci. Inizio a canticchiare la canzone “Granada romanticaaaa”, cosa che fa annuire nuovamente la mia interlocutrice e sorridere “Sì, proprio quella”, mi dice di rimando.
Mentre giro per la casa, incrocio Dxxx che è abbastanza incazzato con la direzione del negozio. Non so se l’oggetto della sua furia sia il nostro improvviso trasferimento o una serie di altri problemi (ovviamente il nostro è uno dei classici lavori-sfruttamento), però lui è deciso a protestare. Prima di partire, chiede ad un nostro coinquilino un favore: in quattro e quattrotto questi gli confeziona una collana passando dello spago grezzo infilato in un ago attraverso delle piastrinette quadrate profumate (delle dimensioni di una “tessera fedeltà”, per intenderci) che non riesco a capire se fossero di cartone (e quindi funzionassero vagamente come la “carta d’eritrea”) o di sapone. Oppure plastica. Il succo, comunque, è che lui avrebbe manifestato il suo dissenso e protestato col profumo: un metodo che non sarebbe passato inosservato, perché tutti, camminandogli accanto, se ne sarebbero accorti. Era anche un buon profumo. Fresco, di fiori. E la direzione non avrebbe gradito sicuramente, pur non potendo fare granché contro una protesta così smaccatamente pacifica. Sorrido: è un’idea geniale, cazzo!

Dopodiché la scena cambia: mi ritrovo da sola, in casa. Sono l’ultima a dover ancora uscire per partire verso Granada, ma devo assolutamente fare qualcosa. In questo qualcosa c’è il gattino rosso ad assistermi; lui mi guida verso la ricerca di alcuni scrigni nascosti nella nostra abitazione che ora si è trasformata in un castello (ma non buio e tetro: un bel castello, rassicurante d’aspetto anche nei posti più nascosti). Non so per quale motivo io debba trovare questi tesori; lo devo fare e basta, immagino. E poi il micio sa il fatto suo. Ricordo che ne avevo già trovati uno o due. Mi mancava l’ultimo. Il gatto mi porta nella torre, alla quale si accede solo attraverso la finestra (non ho memoria dell’arrampicata affrontata per arrivare lassù in cima). La stanza è piacevole: c’è un tappeto viola, un comodino, una sedia-poltrona dall’aspetto comodo; credo anche un caminetto. Arazzi alle pareti illuminate dal sole che entra dalla finestrella (da cui si scorge il cielo azzurro). Lo scrigno si trova dentro il comodino. Lo apro e dentro trovo qualcosa che non ricordo (credo -nel senso che mi pare di aver trovato più cose lì dentro) e dei pastelli. Questi sono nuovissimi: lisci e dalla punta perfetta. Il bastoncino di legno è colorato di nero e in fondo c’è una parte di circa 2 cm colorata del colore della mina. In questi 2 centimetri in bei caratteri corsivi/gotici dorati è scritto il nome del colore. Ogni nome è composto, come, ad esempio “verde smeraldo” o “rosso rubino”, ma il secondo nome è molto fantasioso: al posto di “smeraldo” e “rubino”, infatti, ci sono altre parole -che non ricordo- che rendono il nome stesso del colore poetico (per rendere un’idea, potrei inventarmi la combinazione “bianco anima”, anche se i nomi erano meno banali…). C’è di più da dire: il nome del colore sembra quasi una formula magica. I pastelli che ricordo sono tre: due che si chiamavano “nero —–” (ma uno dei due era un marrone) e uno era d’oro. Ricordo di aver provato il pastello dorato su un foglio di carta e, incredibile, colorava proprio d’oro, con l’effetto del metallo. Era meraviglioso. La cosa stupefacente è che, come mi viene spiegato in quell’istante -non sono più sola nella stanza: c’è molta gente, venuta da non so dove- è che i pastelli assumono un colore diverso a seconda di col*i che li possiede. Cedendoli in mano al/la mi* interlocutore/rice, vedo uno dei tre trasformarsi in verde. Insomma, finiscono per rappresentare con i loro colori la persona che li deve usare.
Sono molto felice di quel tesoro, ma scopro ben presto che le cose non possono filare così lisce: a guardia dello scrigno, infatti, c’è una Regina. E’ lei che devo battere per poter tenere i pastelli. La sfida è una guerra di parole/frasi/filastrocche. Inizia la Regina e io devo ribattere. E’ molto difficile: è faticoso, sono in affanno (fisico) mentre ripeto una sorta di formula-poesia in risposta a ciò che la guardiana mi ha detto. Alla fine, mentre sono quasi accasciata a terra (ora guardo la scena dall’esterno e io non sono più io, ma ho l’aspetto di un mio amico), riesco a recitare tutti i versi correttamente e la Regina è sconfitta. Non succede nulla di eclatante: non c’è sofferenza nell’avversario battuto. Lei, infatti, accetta la sconfitta e mi concede di tenere il contenuto dello scrigno. La sua corte (il resto delle persone -o forse fantasmi- che erano comparse nella stanza) fa addirittura festa.

La sveglia suona e il sogno finisce lì, senza lasciarmi scoprire che cosa dovevo fare con i tesori trovati e perché il gatto voleva che io li scovassi…

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Generi e violenza

Poco tempo fa su Femminismo a Sud eravamo tutt* invitat* a riflettere sulla violenza e sul fatto che fosse o meno una cosa strettamente legata ad un genere piuttosto all’altro. Ci ho pensato anche io, con i miei tempi, e devo dire che la risposta non è facilissima da esporre in maniera chiara.

Ovviamente la violenza di per sé -ma non ci vuole molto a capirlo- non è prerogativa di una singola categoria di persone: è un fenomeno che tocca tutto e tutt*, trasversalmente ai generi, alle età, alle classi sociali ecc… Esistono uomini violenti e donne violente; ragazzin* violent* e anzian* che si esprimono con violenza, bianch*, ner*, ross*, giall* e blu violent*, facchin* e presidenti/esse violent*. In un certo senso, la violenza non discrimina e si accompagna benissimo a chiunque, pur esprimendosi in maniera diversa a seconda di chi la agisce. Ma qui stiamo parlando di concetti chiari anche a bambin*.

Il punto fondamentale su cui mi sono focalizzata dopo il post su FaS e che forse ha scatenato la maggior parte dei commenti è che, secondo me, se la violenza non ha genere, esiste però una violenza maschile, che è un concetto un po’ diverso. Per violenza maschile intendo (ma non è un termine inventato da me) quella che porta, al suo culmine, al femminicidio: una violenza che ha caratteristiche precise e che è profondamente radicata nella società patriarcale. Si tratta, insomma, di un problema degli uomini che, però, si riflette sulle donne e questo perché è lo strumento che il patriarcato mette in mano ad una fetta della popolazione mondiale per tenere a bada l’altra e mantenere così lo status quo.

Trovo sconcertante vedere quanti uomini, posti di fronte a questo problema, scattino subito sulla difensiva cercando spesso di minimizzarlo o affrettandosi a dichiarare che “no, io non ho mai stuprato/picchiato/ucciso”, perché penso si tratti di un tentativo di sviare il discorso in modo da non mettere realmente in discussione il proprio ruolo, o meglio quello che la società ha affidato loro.

Confesso che mi fa anche abbastanza imbestialire quando, introducendo il problema della violenza maschile, subito saltano fuori i cosiddetti “controesempi” riguardanti le “donne maltrattanti”; in questi casi mi arrabbio non perché gli eventi citati non esistano, ma perché, secondo me, il paragone non ha senso per ben due motivi: innanzitutto, perchè non si tratta di una violenza sistematica (nessun uomo viene mai ucciso in quanto uomo: non esiste il “maschicidio”) e, secondariamente, perché, sebbene alcuni esempi rientrino con precisione nell’ambito delle violenze del patriarcato, il peso (sociale) della cosa è differente. Ad esempio: un uomo viene maltrattato dalla compagna e non può difendersi o dirlo ad altr* altrimenti non verrebbe creduto e/o verrebbe deriso. Sicuramente per quest’uomo realizzare che la società, invece di dargli una mano, ne approfitterebbe per ferirlo ancora di più è angosciante. Si tratta, infatti, del rendersi conto di vivere in una cultura che ti costringe dentro determinati ruoli e, appena ne esci per un motivo o per l’altro, ti schiaccia. E’ un’esperienza terribile ma, per quanto oggettivamente terrificante, non credo che per il caso citato e in quelli a lui simili si possa parlare esattamente di “emergenza” sia in termini numerici che in termini di “baratto” (ossia di come la società ti ricompensa se accetti di ritornare nel ruolo che ha cucito per te -v. il discorso sul privilegio poco più in sotto), così come non ho dubbi sul fatto che, invece, risolvere la questione della violenza sulle donne sia urgente: è evidente, infatti, il luogo (e i modi) dove si verifica l’emorragia; il patriarcato, insomma, va distrutto e con la sua distruzione avremo una società dove le donne non vengono uccise in quanto donne e dove chiunque sarà liber* di esprimersi, a qualunque genere appartenga.

Ma perché è così difficile per molti uomini ammettere che esista il problema della violenza maschile? Un caro amico, relativamente poco tempo fa, mi ha fatto riflettere sulla questione del “privilegio”: in effetti il patriarcato, sebbene schiacci chiunque in ruoli preconfezionati, sa bene come distribuire bastoni e carote, ed è palese che esista una parte di popolazione che ottiene più benefici che danni da una determinata cultura. Ammettere che esista questo problema, per qualcuno significherebbe mettere in dubbio la base su cui il proprio privilegio si fonda e concordare sul fatto che, pur non picchiando, stuprando ed uccidendo, è da botte, stupri ed omicidi che questo privilegio trae la forza. Con questo non dico -mi pare ovvio- che gli uomini siano tutti violenti, ma è chiaro che è molto più difficile per loro rendersi conto di quanto alcuni atteggiamenti che possono (e sono incoraggiati ad) assumere contribuiscano a ungere la ruota del patriarcato e a mantenere inalterata la questione della violenza sulle donne. Detto ciò, è facile comprendere come mai la violenza maschile sia un problema la cui esistenza viene spesso negata. Faccio un esempio un po’ diverso: io, come persona bianca e appartenente ad una determinata classe sociale sono consapevole di avere dei privilegi e, sebbene non abbia mai personalmente ridotto in schiavitù un/a bambin*, riconosco che la società capitalista in cui vivo mi rende complice della sofferenza di milioni di bambin* nel mondo, perciò tento di fare qualcosa, di modificare il mio stile di vita e di sensibilizzare quante più persone possibili sull’argomento, in modo che la catena della complicità si spezzi. E’ così difficile rendersi conto delle proprie responsabilità? Pare che in alcuni casi lo sia.

Spero quindi di aver risposto alla domanda posta da FaS e aggiungo che la violenza è sempre da condannare, ma non è un errore ammettere che esistano vari tipi di violenza, con origini diverse e con diverse implicazioni sociali. Solo in questo modo, infatti, è possibile trovarne le radici e contrastarle per, infine, estirparle.

Breve nota: in questi giorni ho assistito a molte discussioni, a volte solo vagamente relative a questo argomento. Ho letto che bisognerebbe ascoltare tutte le parti (come se esistessero buoni o cattivi) e cercare di capire chi si fa portavoce di una determinata cultura (sia in fatti che solo a parole). Ebbene, pur rispettando i percorsi singoli e non dividendo il mondo in buoni e cattivi, so benissimo con chi non ho intenzione di parlare: a me non interessa il confronto con chi picchia e stupra o uccide, così come non mi interessa parlare con chi si definisce maschilista, o chi si dichiara orgogliosamente antifemminista (come se ci fosse di che andare fieri nell’ammettere di essere contrario alla creazione di una società giusta e paritaria…). Queste persone sono coloro che non riconoscerebbero il problema della violenza maschile, che lo sminuirebbero o che cercherebbero di cambiare il discorso. Mi dispiace, ma ho una lotta da portare avanti e poco tempo da perdere.

Contrariamente, spenderò tutti i più insignificanti minuti del mio tempo cercando di fare informazione, di diffondere cultura, in modo che, nel mio piccolo, potrò far germogliare qualche seme di riflessione. Non sarà la mia azione solitaria a cambiare il mondo, però conosco molte persone che stanno percorrendo la stessa strada con me e questo mi dà forza.

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